Alice In Chains: recensione di Dirt

Recensione a cura di Andrea Musumeci

29 settembre 1992. Siamo in pieno terremoto grunge con epicentro Seattle, gli Alice In Chains sbancano il botteghino pubblicando Dirt, pietra miliare della discografia rock.

Era il 1992: in Jugoslavia proseguiva la guerra civile e secessionista, Falcone e Borsellino perderanno la vita a Palermo in due attentati, in Italia scoppia lo scandalo Mani pulite, anticamera di tangentopoli dell’anno successivo, il democratico Bill Clinton verrà eletto presidente degli Stati Uniti al posto dello sconfitto George Bush, mentre nel frattempo la tecnologia, che stava facendo passi da gigante, diventerà sempre più indispensabile, e andrà a modificare in maniera significativa usi e costumi degli esseri umani in ogni settore della vita.

Nel 1992, nell’ambito musicale, queste erano le uscite discografiche nel nuovo panorama alternative rock e metal: Dirt degli Alice In Chains, Core degli Stone Temple Pilots, il debut album omonimo dei Rage Against The Machine, l’MTV Unplugged dei Pearl Jam, Vulgar Display Of Power dei Pantera, Blues For The Red Sun dei Kyuss, Dirty dei Sonic Youth, Incesticide dei Nirvana, Opiate dei Tool. Questo, chiaramente, è solo un elenco parziale.

Ormai gli Alice In Chains erano stati consapevolmente inghiottiti dalla “movida grunge” e dal potere delle case discografiche (ricordate il famoso aiutino delle major?), sebbene già a metà degli anni ’80 si fossero adeguati alla tendenza di quel momento storico con una proposta musicale semplicemente glam rock, che però non gli portò successo e fama. Successo e fama arriveranno qualche anno più tardi.

Va detto, però, che gli Alice In Chains andarono oltre certi stereotipi del fenomeno grunge: le influenze psichedeliche e cosmiche seventies, il retaggio metal degli Ottanta, lo splendido timbro, sofferto ed evocativo, del compianto Layne Staley e le grandi performance alla chitarra di Jerry Cantrell sono stati i capisaldi di un capolavoro indiscusso come Dirt, dove titolo e artwork ci introducono in una dimensione sporca, straziante e destabilizzante di disperazione acida, tossica e claustrofobica.

Chi non si è mai perso nei testi di Dirt, nei riff sabbathiani e lisergici di Cantrell, nel basso di Would o, in generale, nella voce ipnotica di Layne Staley?

Se è vero che l’arte nasce dal disagio, gli Alice In Chains furono lo specchio fedele della società in cui si manifestarono, la fotografia più nitida del lamento della generazione degli anni ’90. Insieme ai Nirvana, ovviamente.

Dirt è stato il prolungamento della nostra adolescenza: un capolavoro senza tempo.

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