Atrophy
Asylum
Massacre Records
15 marzo 2024
genere: thrash metal
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Recensione a cura di Marco Calvarese
Gli Atrophy, come l’Araba Fenice, sono risorti dalle proprie ceneri. A più di trent’anni di distanza dall’ultima pubblicazione, il gruppo è tornato a fare capolino in questo (musicalmente) fortunatissimo 2024 con l’album Asylum e, credetemi sulla parola, non è una notizia da lasciar passare in secondo piano.
Almeno non per chi, come me, nella golden age del thrash metal, subito prima del crepuscolo della Bay Area e dell’alba di Seattle, era il classico “duro e puro”.
Ero il target ideale per la band di Tucson, il classico metallaro di granito e acciaio, affamato di nuove uscite e band da scoprire, aspramente riottoso agli inviti, di amici e mercato, ad aprirmi alle nuove sonorità. Seguivo tutto, mi tenevo aggiornato, acquistavo riviste, doppiavo qualunque cosa mi proponessero gli altri “malati di musica”.
Eppure devo essere sincero. Quello degli Atrophy, per me, fino a un mese fa, era solo un nome come un altro, perso come una goccia nel mare magnum dei ricordi e delle proposte emerse in quegli anni, penalizzato, forse, più dall’inflazione di un genere allora agonizzante che da propri demeriti.
Poi, all’improvviso, mi capita di leggere sui social che gli Atrophy hanno registrato un nuovo disco. “Caspita” – mi dico – ce ne vuole, di coraggio, per tornare a macinare violenza come fosse di nuovo il 1990, mentre nel frattempo tutto il mondo intorno è cambiato in un modo così radicale e repentino.
Non c’è scelta; da thrasher magari non ortodosso come allora, ma dai gusti spudoratamente cristallizzati, non posso far altro che spolverare il cassetto della memoria, acquistarlo e infilarlo nel lettore.
A questo punto vi aspettereste la solita favola dalla trama scontata e invece no: qui non inizia un viaggio sognante nel tempo, non sorge il Bengodi dei nostalgici, ma sgorga dallo stereo uno tsunami che mi manda a tratti in visibilio, perché i redivivi hanno sfornato un comeback assassino, un vero manuale del thrash, senza cadere nel banale, senza fare copia e incolla e soprattutto senza risultare datati.
Sarà merito della formazione completamente nuova riunita intorno all’unico superstite Brian Zimmerman, frontman, leader e detentore del marchio. Sarà anche merito suo, perché è magistrale la sua composizione testuale e ancor di più il suo stile melodico, graffiante, immediato e tanto ben arrangiato da inchiodarsi in testa.
Fatto sta che il mio CD ha già girato una dozzina di volte nel lettore senza stancarmi mai e anzi, lo sento crescere continuamente nonostante non ci sia un solo elemento di novità che sia uno! Riff spaccaossa, cambi di tempo fluidi e talora spinti fino al breakdown, arrangiamenti magistrali, l’ispirazione giusta e tanto mestiere: gli ingredienti di una ricetta dai sapori fortissimi, direi un mix, riuscito e rivisitato in chiave personale, di Exodus e Metallica (quelli degli anni ’80) con una generosa spolverata di Testament. Roba per palati avvezzi alla musica diretta, senza fronzoli, ma deliziosamente suonata e prodotta, cattiva, feroce e cupa quanto basta.
Metto subito in chiaro i miei punti fermi: a me sono piaciute da morire la opener Punishment for All, con quelle partiture vocali capaci di tirarmi fuori dalle viscere tutti i sentimenti peggiori, e la closer Five Minutes ‘Til Suicide, dall’arpeggio rubato alla One dei “four horsemen”, ma poi sviluppato secondo i dettami di Gary Holt. Ma ho apprezzato anche tanta di quella roba, nel mezzo, da far scorrere con gusto perfino tracce un po’ al di sotto della media, come Bleeding Out, tirata ma alla fine piatta.
Ciò che più mi ha colpito è stata la maestria compositiva di Zimmerman, che mi ha rimandato, per la qualità con cui ha saputo armonizzare strofe e muro sonoro, al Robb Flynn di Burn My Eyes. Con brani come High Anxiety e American Dream vien voglia di cantare e pogare, e questo lo si deve tanto a lui, nonostante la carica trascinante degli altri artisti non sia da meno. Questi ultimi, sono anzi i protagonisti di tracce memorabili, come ad esempio Seeds Of Sorrow, un gioiello, un vero e proprio manifesto thrash, gravido com’è di un ritmo travolgente e di un bridge killer che vi segnerà a vita.
Mi piace poi la tritasassi Distortion, tanto cupa e cangiante nel riffing, quanto diversa dalle altre per struttura e mid tempo; smorza un po’ i toni e i tempi anche Close My Eyes, forse l’episodio più rabbioso in assoluto e quello in cui meglio si apprezza tutta la versatilità della sessione ritmica. Eppure nulla può in confronto alla successiva The Apostle, che mi cattura già a partire dall’intro biblica, il mitologico “Ezechiele 25:17” di tarantiniana memoria, e che poi frantuma tutto ciò che si frappone fra me e le casse con una aggressività che, sono certo, piacerebbe un casino a Chuck Billy e soci.
Ogni volta che sfumano le ultime note di questi tre quarti d’ora di pura violenza, mi vien voglia di ricominciare. È presto per parlare di top album dell’anno perché sono attesi ancora tanti grandi nomi nei prossimi mesi (stay tuned!), ma qui non si scherza per niente, qui sono incise le tavole della legge di un genere che ha ancora tanto da dire. Fino a quando artisti di questo spessore avranno cotanta ispirazione e voglia di tornare in pista, c’è speranza di veder sorgere una nuova era del thrash. Imperdibile.
Tracklist:
1. Punishment for All 2. High Anxiety 3. Seeds of Sorrow 4. Distortion 5. Bleeding Out 6. American Dream 7. Close My Eyes 8. The Apostle 9. Five Minutes ‘Til Suicide
Lineup:
Brian Zimmerman – voce
Nathan Montalvo – chitarra solista
Mark Coglan – chitarra ritmica
Josh Gibbs – basso
Jonas Shütz – batteria
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