Bruce Springsteen: recensione di Born To Run

Recensione a cura di Andrea Musumeci

25 agosto 1975. Bruce Springsteen pubblicava il suo terzo album, il capolavoro Born To Run.

Ci sono canzoni che tracciano un solco indelebile nella nostra quotidianità, altre che fanno riemergere ricordi che pensavi di aver messo da parte ed altre ancora che sono dei veri e propri pugni nello stomaco.

Sembrano così lontani i tempi di Born to Run, in cui Springsteen ci raccontava il valore dell’amicizia; l’amicizia vista come una spalla (la spalla che si vede in copertina, quella del suo amico Clarence Clemons), un umile sostegno, un’opportunità per esaltare gli entusiasmi attraverso le diversità, e mai come un mezzo per giudicare o denigrare.

Sembrano così lontani quei tempi, eppure non è così; il Boss è rimasto fedele alla sua umanità, sempre vicino alle realtà più difficili, a quelli sconfitti dai propri sbagli, a quelli che hanno superato la colpa del rimpianto dopo tanti anni, a quelli che hanno lasciato le proprie radici e non sono più tornati.

Il Boss ci ha cantato e descritto tutto questo, con la sua voce rauca, profonda, malinconica, dolce, straziante e a volte arrabbiata: il sogno americano svanito, le vittime di guerra dimenticate, i poveri sempre più sfruttati.

Il Boss attraverso Born to Run ci ha raccontato l’America difficile, il desiderio di fuga e l’inseguimento del famoso sogno americano da parte dei giovani idealisti e ribelli, mentre qualche anno più tardi, nel 1982, con l’album Nebraska, Springsteen ci racconterà l’incubo di tutte quelle aspettative tradite dal sogno americano, con tutte le sue conseguenze.

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