Iron Maiden: recensione di Somewhere In Time

29 settembre 1986. Gli Iron Maiden pubblicano l’album Somewhere In Time.

Quella di Somewhere in Time è una delle copertine degli Iron Maiden più complicate e stratificate partorite dalla mente geniale dell’artista Derek Riggs, con molti tricks e cenni al loro passato, anche definiti dagli inglesi con il termine easter egg, ossia uova di Pasqua, sorprese.

Una copertina che proietta la famosa mascotte Eddie, in versione difensore della legge tipo Robocop, in un futuro cibernetico, visionario, avveniristico e fantascientifico, sulla scia del successo dell’era degli effetti speciali dell’industria cinematografica degli anni ’80, grazie a pellicole cult come Blade Runner, Ritorno al Futuro, E.T., Terminator, Guerre Stellari, etc.

Eravamo dunque nel 1986: Ronald Reagan tentava di arginare Gheddafi cosí come gli ucraini cercavano di contenere le scorie radioattive sprigionatesi dopo l’esplosione della centrale nucleare di Cernobyl; ai Mondiali del Messico, Maradona trascinava la sua Argentina alla vittoria della Coppa del Mondo, grazie alla Mano de Dios, c’era ancora la Guerra Fredda e la Germania era ancora divisa in due dal Muro di Berlino.

Il 1986 fu un anno movimentato anche per il rock, e rappresentò, in un certo senso, un giro di boa per quella che sarebbe stata la musica degli anni ‘80, con uscite discografiche importanti come Master of Puppets dei Metallica e Reign in Blood degli Slayer, per quanto riguarda il metal, e Slippery When Wet dei Bon Jovi e The Final Countdown degli Europe, solo per citarne alcuni.

Negli Stati Uniti, invece, tornavano alla ribalta gli Aerosmith, i quali, al pari dei Beastie Boys, grazie alla lungimiranza del produttore Rick Rubin, stavano dando vita ad un nuovo tipo di contaminazione musicale.

I Guns N’ Roses iniziavano a farsi strada nel panorama hard rock, mentre in Gran Bretagna stava volgendo al termine l’era dei grandi spettacoli dei Queen: quello di Wembley fu, infatti, uno degli ultimi concerti della band con Freddie Mercury come frontman.

Il 1986 fu l’anno di massimo splendore per il genere glam metal e per il genere thrash metal, tanto da far nascere, inevitabilmente, due fazioni contro: thrashers contro glamsters.

I primi uscirono dalla dimensione prettamente underground soprattutto grazie a band come Metallica, Slayer e Megadeth, che, geograficamente, erano collocate un po’ più su di Los Angeles, sempre in California, ma nella Bay Area di San Francisco. Del resto, l’heavy metal, alla fine degli anni ’80 si era trasformato in un genere pop (inteso come popolare) e, forse, l’idea che aveva della società non era poi così lontana dalla realtà e da quello che eravamo.

Nel 1986, gli Iron Maiden pubblicano il capolavoro Somewhere in Time, nel quale, per la prima volta, troviamo l’utilizzo delle guitar synth, ossia chitarra e sintetizzatore insieme: d’altronde, la tecnologia stava facendo passi da gigante in ogni settore della vita e dell’arte, fino a diventare indispensabile.

I sintetizzatori furono una rivoluzione in ambito metal, considerata, dai puristi del genere e dai loro fan storici, una sorta di tradimento. L’uso del sintetizzatore, quindi, inizia a prendere piede anche nel genere metal, come già era avvenuto, ad esempio, con i Van Halen un paio di anni prima, diventando componente imprescindibile nel percorso discografico degli Iron Maiden, dal successivo Seventh Son of A Seventh Son in poi.

Caught Somewhere in Time, Wasted Years, Alexander the Great, The Loneliness of the Long Distance Runner, Stranger in a Strange Land e Heaven Can Wait, sono i cavalli di battaglia di impatto immediato di quest’album, con cambi di ritmo e velocità improvvisi, che lasciano l’ascoltatore in uno stato di tensione ed emozione perenne, per l’intera durata del disco.

Se volete perdervi con la mente, lasciatevi trascinare dal riff intro di Caught Somewhere in Time o dal riff di Wasted Years.

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