Mötley Crüe: recensione di Too Fast For Love

Recensione a cura di Andrea Musumeci

10 novembre 1981. I Mötley Crüe pubblicano il loro debut album Too Fast For Love per la Lethur Records.

L’etichetta Lethur Records li avrebbe fatti conoscere al massimo ad un pubblico da locali, mentre successivamente, soprattutto per merito dell’ambizione e della perseveranza pseudo manageriale del bassista Nikki Sixx, il disco fu rieditato per la Elektra, con risultati in termini di vendite decisamente migliori, sebbene all’inizio la Elektra non rese la vita facile ai componenti della band, e come produzione, non rese giustizia al loro disco d’esordio.

I Mötley Crüe erano la band hard rock pop che gli anni ’80 stavano aspettando come il pane, soprattutto se consideriamo il loro background e la forte ascesa della new wave. Senza peccare di eresia, è possibile considerare i Mötley Crüe come i Beatles del glam metal degli anni ’80.

In quel periodo storico, se volevi dare un’immagine da metallaro vero, scatenarti ai concerti e fare headbanging, servivano i capelli lunghi, non importa se lisci e biondi come quelli di Vince Neil, o neri e arruffati come Nikki Sixx: l’importante è che fossero lunghi.

Era il modo per rappresentare la gloria adolescenziale e rispecchiare la sfera emotiva dei Crüe, sebbene, in quegli anni, nessun adolescente brufoloso aveva davvero nulla in comune con i Mötley Crüe.

Loro vivevano a Los Angeles, in una casa bordello putrida che, dopo poco tempo, a suon di festini, avevano ridotto a disastro ecologico, tant’è che si trovarono davanti alla porta di casa addirittura l’Ufficio di Igiene di Los Angeles, che li invitò a ripulire il disastro ambientale che avevano creato. L’invito, ovviamente, non fu accolto.

I Mötley Crüe si portavano a letto le pornostar e tutte le ragazze alle quali potessero scroccare da bere, cibo o droghe, facevano a cazzotti coi poliziotti, bevevano Jack Daniel’s a colazione e sputavano tranquillamente sui pavimenti, come fosse la cosa più normale del mondo.

Erano semplicemente dei ragazzi, poco più che adolescenti, dei teppisti con il testosterone fuori controllo che fecero dell’oltraggio e la provocazione il loro mestiere. In quel periodo erano come gli dei dell’Olimpo. Anzi, paragonato a Vince Neil, Tommy Lee, Mick Mars e Nikki Sixx, Zeus sembrava un quaquaraqua qualunque.

La voce di Vince Neil era strana per il genere, sembrava quella di una bambina irriverente ed urlava come una ragazza durante un orgasmo, mentre le bacchette di Tommy Lee picchiavano forte sulle pelli… soprattutto su quelle dell’ex bagnina di Baywatch e della bionda protagonista di Melrose Place.

Nel 1981, i Mötley Crüe erano, contemporaneamente, il prototipo e lo stereotipo della band glam metal: vestiti di spandex, con chili di lacca sui capelli e trucco pesante, nonché grossi consumatori di cocaina. Incarnavano appieno l’immagine decadente della scena rock di Los Angeles all’inizio degli anni ’80.

Le band glam rock/metal di quel periodo storico erano divinità effimere, ed infatti si bruciarono nell’arco di un decennio, o al massimo di un paio di album. Ma negli anni ’80 il glam metal era diventato pop, ed ha rappresentato la colonna sonora per parecchi ragazzi in cerca di autostima. Oggi, quei ragazzi vengono simpaticamente chiamati boomer.

La copertina di Too Fast For Love ricorda parecchio (banale copiatura o gentile omaggio ai genitali di Jed Johnson?) quella di Sticky Fingers dei Rolling Stones; all’interno ci sono i quattro rocker che somigliano a delle battone da marciapiede. Del resto, la pacchianeria, per assurdo, fu un punto di forza per tutto quel revivalismo glam.

Too Fast For Love è un viaggio che parte con una canzone caposaldo della discografia dei Mötley Crüe: la granitica Live Wire. L’album prosegue con Come On and Dance, dal riff parecchio simile ad un riff qualsiasi degli AC/DC dell’era Bon Scott, e passa attraverso la cupa Starry Eyes, che potrebbe essere tranquillamente un pezzo anni ’70 dei KISS, e la bellissima titletrack, con uno dei riff più accattivanti degli anni ’80, scaturito dalla fantasia compositiva di Mick Mars.

Il primo episodio dell’Era Crüe termina con la meravigliosa power ballad On With the Show, che secondo alcuni è addirittura più bella della loro ben più famosa Home Sweet Home.

Peccato, inizialmente, non aver inserito nel disco Toast of the Town, il loro primo singolo in assoluto. Verrà aggiunto in seguito nelle successive ristampe.

Fortemente influenzati dal sound di Cheap Trick, New York Dolls, Sweet, Deep Purple, Aerosmith, Kiss, Beatles, Queen e The Stooges, i Mötley Crüe crearono riff sporchi e genuini, con testi che parlano di vite vissute senza freni e senza limiti, all’insegna del cliché sesso, droga (droghe) e rock & roll.

I Mötley Crüe sono, ancora oggi, un vero e proprio miracolo vivente: dopo tutti gli eccessi e oltre, il miracolo è che siano ancora tutti vivi.

Vi invito a leggere il loro libro The Dirt – confessioni della band più oltraggiosa del rock, per farvi un’idea di come fosse la Babilonia del Rock a Los Angeles negli anni ’80: niente regole, nessuna morale, nessun limite, nessuna inibizione, dissolutezza assoluta.

Una condotta di vita che per poco non li ha lasciati senza vita sull’asfalto, per quanto riguarda Vince Neil, mentre Nikki Sixx era addirittura morto, ma tornò in fretta dall’aldilà per raccontare e continuare le sue gesta sfrenate.

Il metal era sempre stato un po’ sciocco, o almeno, in generale, è così che viene considerato, forse perché era più forma che sostanza, ma almeno era divertente. Ma se il metal era considerato sciocco, e partendo dal presupposto che l’arte replica la vita, allora quel genere musicale rappresentava appieno chi eravamo in quel momento storico.

Se state discutendo di heavy metal e di un contesto culturale come ad esempio gli anni ’80, se doveste dimenticare perché il glam sia diventato così popolare, ascoltate Too Fast For Love.

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