Nirvana: recensione di Bleach

Recensione a cura di Andrea Musumeci

15 giugno 1989. I Nirvana pubblicano il loro debut album Bleach, edito per l’etichetta Sub Pop.

In Italia, all’inizio degli anni ’90, il grunge, praticamente, era costituito solo da Pearl Jam, Soundgarden e Nirvana, poiché la maggior parte di quelle band che appartenevano a quell’area geografica erano sconosciute, per il semplice fatto che non venivano distribuite, o al massimo distribuite con qualche mese di ritardo, quando andava bene.

Poi, nel caso di Nevermind c’era una percentuale di fan attirata più dalla riuscitissima copertina del poppante in piscina (oggi censurata da Zuckerberg) che dal contenuto stesso. Le strategie di marketing, in molto casi, contano più del prodotto musicale in sé.

Volevano essere tutti uguali, omologare la figura del musicista, “siamo tutti uguali, siamo come voi” dicevano ai fan, rinnegando l’edonismo delle rockstar eccentriche e viziate del decennio precedente, sebbene, alla fine, paradossalmente, finirono per diventare proprio come loro, ma senza la necessità primaria di voler apparire. Quel “non voler apparire” che, a sua volta, paradossalmente, divenne un simbolo identificativo.

Bastarono, dunque, quattro semplici accordi ed una forma di poesia elementare per cancellare il sound artificiale e saturo degli anni Ottanta. Pensate veramente che quei musicisti di Seattle, strafatti di droghe sintetiche e vodka, e con addosso quelle camicie di flanella a quadri da boscaioli, avrebbero mai avuto il successo che hanno avuto se fossero rimasti a vita con quelle etichette discografiche di culto tipo Sub Pop? La risposta pleonastica è no. Se non fossero arrivate le major, probabilmente, il sound di Seattle sarebbe arrivato a malapena in Florida.

Questi erano i Nirvana nel 1989, prima che diventassero una macchina da soldi, un carro da parata, una bella stampa per t-shirt da fighetti ed uno dei tanti ingranaggi commerciali dello stesso sistema mainstream che loro stessi avevano ribaltato. Due anni più tardi, arrivò la Geffen, grazie alla quale il giovane Kurt Cobain poté ripagare il decennio degli Ottanta con la stessa moneta. Cobain ripulì quel suono così sudicio e “senza futuro”, grazie all’aiuto del killer senza volto Butch Vig, e rese commercialmente impopolare la musica heavy metal.

Bleach, rispetto a Nevermind, aveva un impatto più heavy, più cupo e gotico, quasi doom, con contaminazioni psichedeliche, acide e garage-fuzz, ma evidentemente era un frutto ancora acerbo per i clienti del grande mercato. Bleach era un disco quasi heavy metal, mentre Nevermind, con i suoi suoni più affinati, rimaneva confinato tra hard rock e new wave punk: perfetto per MTV e radio FM. Ecco, dunque, spiegata la riscoperta postuma di Bleach, in termini di visibilità e di vendite.

Tutti gli altri gruppi della stessa area geografica vissero di luce riflessa. O quantomeno poterono sfruttare quella chance, quel nuovo vento a favore, per uscire dai propri confini, per contribuire al successo mondiale del cosiddetto Seattle sound e per vincere dischi di platino. Infatti, fu grazie al successo di Nevermind che i Nirvana finirono all’Headbangers Ball su MTV, con Kurt Cobain vestito da donna. Forse, fu proprio in quella parodia dissacrante che morì definitivamente l’ideologia metal.

Nel 1989, anno di pubblicazione di Bleach, i Soundgarden, ad esempio, avevano già un paio di LP alle spalle, ma raggiunsero il successo popolare soltanto cinque anni più tardi con l’album Superunknown.

Innanzitutto, inizierei con il ridimensionare il concetto di movimento quando si parla del fenomeno grunge.
Movimento poi di che tipo? Tipo il femminismo? I gruppi grunge non erano accomunati da uno stesso stile musicale, né da una stessa idea filosofica, né dal modo di vestire. Non va mai dimenticato che il panorama musicale non è mai casuale. La cultura, la geografia, l’economia influiscono sempre e comunque sulle mode generazionali.

Il grunge, dunque, non indicava assolutamente un genere in particolare, né indicava un movimento. Indicava semplicemente una moda. E, come diceva Gaber, “Quando è moda è moda, non importa la specificazione“.

Quindi, cos’erano i Nirvana?
Una band metal? No.
Una band hard rock? No.
Una band punk? Nemmeno.

A un certo punto, negli anni ’90, tutte le case discografiche volevano mettere sotto contratto una band etichettata come grunge e tutte (o quasi tutte) le band emergenti volevano salire sul carro del momento. Poi, a metà di quel decennio, la morte di Kurt Cobain e l’avvento di gruppi cloni come i Bush decretarono la fine di una delle pagine più importanti della musica rock.

In parte, capisco anche chi va alla ricerca di un’altra chiave di lettura del periodo storico musicale grunge, definendolo la semplificazione e la riscoperta di realtà garage degli anni ’60, come i Sonics, o la rivisitazione degli sperimentalismi degli anni ’60 e ’70, come Cream, Captain Beefheart, Black Sabbath e Gary Numan.

Le band geolocalizzate nel panorama rock di Seattle non erano identificabili sotto uno stesso genere. Le poetiche, invece, quelle si, erano comuni: i portavoce della generazione X sentivano il bisogno interiore di liberarsi dalle false promesse degli anni ’80, per evolversi in qualcosa di meno tecnico e più emozionale, più empatico, sebbene fosse presente uno spirito di rassegnazione e impotenza nei confronti della società e del futuro.

Stando alla cronaca: il titolo dell’album, Bleach, venne in mente a Cobain quando scoprì, durante la tappa di San Francisco, un manifesto che invitava alla prevenzione dall’AIDS. Il manifesto consigliava a chi faceva uso di eroina di passare della candeggina (in inglese, bleach) sugli aghi delle siringhe prima di utilizzarle ed era accompagnato dallo slogan “Bleach Your Works”.

Nella foto a colori, scattata da una ex dell’epoca di Kurt Cobain, oltre a Cobain e Chris Novoselic, ci sono il batterista Chad Channing, che verrà sostituito da Dave Grohl, ed un elemento aggiuntivo, tale Jason Everman alla chitarra, che praticamente non suona e appare solo nei crediti di Bleach.

Diciamo che non avrei voluto essere nei panni di Chad Channing all’indomani del successo di Nevermind, verosimilmente il disco più importante della prima fase dell’era global: l’album grunge pop per eccellenza. E con il termine pop si intende semplicemente popolare.

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