The Beatles: recensione di Let it Be

Recensione a cura di Chiara Profili

8 Maggio 1970. Esce Let it Be, l’ultimo album pubblicato dai Beatles. Nonostante il disco sia stato registrato quasi interamente in sessioni precedenti a quelle di Abbey Road, vedrà la luce solo successivamente, in seguito anche all’annuncio dello scioglimento della band, avvenuto il 10 di Aprile del 1970.

Con questo lavoro, i Beatles cercarono di ritornare alle loro origini, registrando per lo più in presa diretta, limitando l’ausilio di strumentazioni elettroniche e sovraincisioni. Il produttore Phil Spector modificò, tuttavia, il risultato finale, missando il disco e aggiungendovi cori e parti orchestrali. Ciò portò a litigi interni, ad un malcontento che risiedeva principalmente nella persona di Paul McCartney, che si vide stravolti alcuni dei suoi brani, in particolare The Long and Winding Road, di cui non apprezzava l’arrangiamento voluto da Spector.

I Beatles, McCartney in particolare, avrebbero voluto tornare al vecchio rock n’ roll dei primi anni ‘60, quello di Please Please Me e dei giorni amburghesi, cosa che riuscì loro solo in parte.

Let it Be è un disco travagliato e sconnesso. All’ascolto di chiunque, non risulta come un qualcosa di omogeneo. I Beatles stessi erano insoddisfatti del risultato finale, al termine delle registrazioni. Per questo motivo il progetto era stato accantonato, per dare spazio all’ultimo vero capolavoro del quartetto di Liverpool, Abbey Road.

Quando si parla di Beatles, viene naturale essere esigenti e loro stessi, col passare degli anni, erano diventati sempre più dei perfezionisti. Con questo non intendo dire che Let it Be sia un brutto album, anzi. La title track è uno dei pezzi di maggior successo dei Fab Four, il canto del cigno di un McCartney ancora ispiratissimo ed il preludio a quella che sarà la sua soddisfacente carriera solista. Per la rivista Rolling Stone, il brano si piazza al ventesimo posto nella classifica delle cinquecento canzoni migliori di tutti i tempi.

Comunque Let it Be, inteso come disco, non è solo il pianoforte di McCartney che invoca la sua defunta mamma Mary (e non la Vergine Maria, come alcuni pensarono inizialmente). Let it Be è anche il rock scanzonato di One After 909, o quello lennoniano di Dig a Pony, da lui stesso definita ‘spazzatura’, per tornare al discorso del perfezionismo. Questo brano fu registrato durante il famoso concerto sul tetto degli studi della Apple Records, a proposito della volontà della band di registrare in presa diretta, tant’è che Dig a Pony inizia con una falsa partenza, dovuta al fatto che Ringo Starr si stava soffiando il naso e gridò ai compagni di fermarsi perché non poteva suonare la batteria con una mano sola.

I’ve Got a Feeling è un altro dei brani del famoso Rooftop Concert, un pezzo veramente figo, se mi passate il termine. Scritto con una struttura simile a quella di A Day in The Life, è formato da due canzoni separate che si amalgamano tra di loro: le parti più rock, quella iniziale e quella finale, sono di McCartney, mentre al centro s’incastra alla perfezione la sezione di Lennon. Possiamo affermare che si tratti dell’ultima composizione a quattro mani della coppia di autori più geniale di sempre.

I Me Mine e For You Blue sono il personale contributo di George Harrison a questo disco; la seconda è una dichiarazione d’amore alla moglie Pattie Boyd, che, come tutti sappiamo, diventerà in seguito la signora Clapton.

Across the Universe, composto e registrato già nel febbraio del 1968, è un ispirato brano di John Lennon, la cui genesi necessiterebbe di un approfondimento. Lui stesso dichiarò: “le parole sono state frutto d’ispirazione: non ne sono il proprietario, mi sono state trasmesse così”. Magico e misterioso.

Chiude il disco la celeberrima Get Back, altro brano rock nel quale il Macca auspicava a quel ritorno alle radici di cui abbiamo già parlato. Il testo era inizialmente una satira sulle posizioni razziste del politico conservatore Enoch Powell, ma fu modificato per paura che potesse essere mal interpretato. Politica a parte, a me piace ricordare la testimonianza di John Lennon secondo il quale, ogni volta che Paul cantava il verso ”Get back to where you once belonged”, rivolgeva lo sguardo all’onnipresente Yoko Ono.

Tirando le somme, checché se ne dica, ritengo Let it Be un ottimo disco a livello compositivo. Poteva essere fatto meglio? Probabilmente sì, ma questo può valere per qualsiasi cosa; come dice Furio “d’altro canto, la perfezione appartiene solo a Dio” e direi che i Beatles ci si sono avvicinati abbastanza, durante tutta la loro carriera.

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