The Doors: recensione di The Doors – 4 gennaio 1967

4 gennaio 1967.
Esce The Doors, album di debutto omonimo dei The Doors di Jim Morrison.

Nella seconda metà degli anni ‘60 la beatlemania ormai impazzava, proprio nel ‘67 sarebbe uscito il famoso Sgt. Pepper’s e se si pensa alla scena musicale di quel periodo, è impossibile non andare con la mente in Inghilterra. C’erano i Cream, gli Who, i Rolling Stones, gli Yardbirds, la famosa british invasion. Negli States, però, qualcosa si stava muovendo. Qualcosa di diverso dal movimento hippie di San Francisco.

A Venice Beach, in California, l’incontro tra Jim Morrison e Ray Manzarek aveva gettato le fondamenta per quello che sarebbe diventato uno dei gruppi più importanti della storia del rock.

I Doors partirono privi di un bassista, fondamentale in quanto riferimento ritmico per un gruppo rock, non avendo trovato un musicista di loro gradimento in quel ruolo. Una volta arruolati il batterista John Densmore e il chitarrista Robby Krieger, tra i quattro si era creato subito un rapporto molto stretto e profondo che Morrison voleva custodire con ogni cura. Di conseguenza, durante i provini alla ricerca del bassista, l’attenzione non andava soltanto alle capacità musicali dell’eventuale nuovo acquisto per il gruppo ma anche alla sua persona.

Dopo qualche audizione, Manzarek, tastierista tecnicamente e musicalmente dotatissimo, propose di adattarsi in quel ruolo, aggiungendo al suo organo Vox Continental uno strumento che gli consentisse di suonare le note basse con la mano sinistra e la parte melodica con la destra.

Questa soluzione, apparentemente di ripiego, diventerà il marchio di fabbrica dei Doors, ciò che caratterizzerà il loro sound, sebbene in seguito, in studio di registrazione, la band si avvarrà di vari bassisti turnisti. Ma non per l’album The Doors, nel quale il basso è quasi completamente assente. Le tastiere diventano, per la prima volta, protagoniste, al pari delle chitarre per qualsiasi altra rock band.

Lo stile dei Doors è particolare, variegato, contaminato da più generi, come disse lo stesso Manzarek: “Krieger portò le chitarre del flamenco, io un po’ di musica classica con un po’ di blues e jazz, e certamente John Densmore era dentro al jazz fino al midollo. Jim portava la poesia della Beat Generation e quella del simbolismo francese, e questo è il brodo nel quale sono nati i Doors, al tramontar del sole sulla costa dell’Oceano Pacifico, alla fine, al termine del mondo occidentale civilizzato”.

Ma i Doors non si differenziavano dalle altre band del momento solo per il sound. Negli Stati Uniti, come abbiamo detto, era la stagione del Peace and Love, ma i Doors si presentavano con un atteggiamento diverso, con Morrison che quasi aggrediva il suo pubblico scrivendo canzoni che parlavano di sesso, droga, rivoluzione e morte. Personaggio estremamente colto, amante della poesia e della letteratura in generale, poeta egli stesso, nei suoi testi non mancano riferimenti ai suoi scrittori preferiti, ma anche alla filosofia e ai miti classici.

Il disco si apre con quello che era già uscito come primo singolo della band, ovvero Break on Through (To the Other Side). Secondo me, è il brano che più rappresenta lo stile dei Doors, uno dei più belli, sebbene all’epoca non riscosse lo stesso successo del secondo singolo estratto, Light My Fire.

Break on Through è un pezzo che ti ‘attraversa’ per poi uscire ‘dall’altra parte’, stiamo parlando di un brano del ‘67, che ancora oggi trasmette un’energia dirompente.

La già citata Light My Fire chiudeva il lato A dell’LP. Ne furono fatte più versioni, poiché quella originale incisa sul disco durava oltre sette minuti, poco adatta per i passaggi radiofonici, quindi. Brano psichedelico, considerato uno dei primi esempi di jazz fusion. Delle sue innumerevoli cover, quella più riuscita e apprezzata dagli stessi Doors è quella di Josè Feliciano, che ispirerà nella sua carriera Carlos Santana.

The Doors va ascoltato senza saltare nemmeno una traccia, ogni pezzo è un capolavoro e la degna conclusione di un lavoro perfetto è l’immensa The End.

Brano lunghissimo, oltre undici minuti, diventata così lunga poiché Morrison improvvisava aggiungendo nuove strofe ogni volta che la riproponeva live al Whisky a Go Go di Los Angeles. Molteplici, nel testo, le citazioni letterarie: da William Blake ad Edgar Allan Poe, fino al celebre riferimento al mito di Edipo, con i versi “Father? Yes son? I want to kill you. Mother, I want to…”.

Recentemente il sig. Morrison si sarà rivoltato nella tomba sentendosi chiamato in causa, dopo oltre 50 anni, per quei versi. È stato portato ad esempio da qualche scienziato, difensore della modernità, per come i testi nel rock siano sempre stati volgari e violenti, paragonandoli a quelli della musica in voga oggi. Peccato che questo paragone, denoti un’ignoranza e una superficialità sconfinate.

I testi di Morrison non vanno presi alla lettera, sono poesie, e in quanto tali, vanno interpretate e contestualizzate. Se si è troppo ignoranti per riuscire a farlo, beh, ci si può sempre buttare su musica meno impegnativa.

Con questo non voglio sembrare snob, ma prima di tirare in ballo un genio del calibro di Jim Morrison, bisognerebbe pensarci mille volte. E magari, prima, aver ascoltato attentamente questo disco: un capolavoro, scontato dirlo, imprescindibile.

Recensione a cura di Chiara Profili

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