Red Hot Chili Peppers: recensione di Californication

Recensione a cura di Chiara Profili

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8 giugno 1999. I Red Hot Chili Peppers pubblicano Californication, settimo album del gruppo statunitense, edito per Warner Bros Records.

Quando hai 10 anni vivi quella delicata fase della vita in cui non ti senti più un bambino, ma non sei ancora niente di diverso. Dai cartoni animati passi ai videogiochi e facendo zapping ti imbatti in un video musicale su MTV che cattura la tua attenzione, proprio perché ti ricorda uno di quei videogiochi, solo che i protagonisti sono quattro musicisti: Anthony, Flea, John e Chad.

Corrono a torso nudo, in versione digitale, per le strade di Los Angeles accompagnati da un giro di chitarra che ti entra subito nella testa.

Naturalmente i Red Hot Chili Peppers esistevano già da diversi anni, Californication è infatti il loro settimo album in studio e nel frattempo di acqua sotto i ponti ne era passata parecchia.

Dalla morte del cofondatore della band Hillel Slovak, all’addio di John Frusciante, con il conseguente album One Hot Minute, che vantava la presenza dell’ex Jane’s Addiction Dave Navarro alla chitarra, fino al ritorno del figliol prodigo Frusciante, che, una volta disintossicatosi, veniva ricontattato da Flea nell’aprile del 1998.

Dopo poco più di un anno, l’8 Giugno 1999, sotto l’ala di Rick Rubin (sì, sempre lui), esce Californication.

Il sound è diverso rispetto agli album precedenti, la componente funk, che tanto caratterizzava la band, si è un po’ persa e le melodie sono a tratti più cupe ed introspettive. Ma hanno una presa maggiore sul pubblico: con la terminologia odierna le definiremmo ‘mainstream’. Tant’è che Californication è l’album più riuscito, in termini commerciali, della loro carriera.

D’altronde la scena musicale di quel periodo non è che offrisse gran che: il grunge era ormai un lontano ricordo, il revival del punk melodico si era ammorbidito e anche il britpop era ormai agli sgoccioli, per non parlare dell’avvento del nu metal.

Nella prima metà degli anni ’80, Prince aveva già previsto il futuro, col suo brano dal titolo 1999, in cui presagiva l’apocalisse, proprio alla fine dei Novanta. Stando ai fatti e ai cambiamenti del contesto storico e musicale alla fine degli anni ’90, non è che ci sia andato tanto lontano il Principe di Minneapolis.

Per noi ragazzini dell’epoca, che cercavamo di non omologarci a chi ascoltava i Lunapop o Britney Spears, i Red Hot erano una boccata d’aria fresca. Una di quelle band che ti accompagna nella crescita e che poi, quasi per un senso di gratitudine, non abbandoni mai più.

Tra i singoli estratti dall’album, oltre alla title track, ci sono Scar Tissue, Around the World e Otherside, quest’ultima, probabilmente, dedicata proprio a Slovak; mentre per il ritornello di Around the World, Kiedis pare essersi ispirato al film La Vita è Bella di Roberto Benigni, per il quale il regista fiorentino aveva appena vinto l’Oscar: “I know I know for sure,

That life is beautiful around the world”.

Quattro brani diversissimi fra loro, uno più bello dell’altro, che hanno contribuito a determinare la cifra stilistica di Frusciante negli anni a venire.

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A proposito di Californication, non posso non menzionare l’omonima serie tv con protagonista David Duchovny, il famoso detective Mulder di X-Files, nei panni dello scrittore Hank Moody, andata in onda dal 2007 al 2014.

Pare che a tal proposito ci fu una disputa legale relativa al titolo della serie, controversia che però non vide dare ragione ai Red Hot Chili Peppers in quanto il termine “Californication” era già comparso in un articolo della rivista ‘Time Magazine’ nel lontano 1972.

Chissà se Anthony Kiedis, pensando alla sua Los Angeles, si troverebbe d’accordo con Hank Moody quando dice che “Le città non cambiano le persone…”.

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