Greta Van Fleet: la recensione di The Battle at Garden’s Gate

Greta Van Fleet

The Battle at Garden’s Gate

Universal Music

16 Aprile 2021

genere: hard rock, rock psichedelico

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Recensione a cura di Chiara Profili

Il 16 Aprile 2021, per Universal Music, è uscito The Battle at Garden’s Gate, il secondo LP dei Greta Van Fleet.

Il disco è prodotto da Greg Kurstin, noto Re Mida del pop, già producer di Concrete and Gold dei Foo Fighters e di As You Were di Liam Gallagher, solo per citarne un paio.

Dei Greta Van Fleet si parla e straparla ormai da qualche anno: ritenuti da alcuni niente più di una talentuosa tribute band del Led Zeppelin e da altri il futuro e l’àncora di salvezza del rock contemporaneo, sui fratelli Kiszka si è detto tutto e il contrario di tutto, ragionando spesso sotto influenza di bias cognitivi e irrazionale soggettività.

Partiamo col dire che entrambe le definizioni sopracitate risultano, a chi scrive, delle enormi e superficiali castronerie. In primis, perché l’influenza zeppeliniana c’è, ma non è così predominante come si vuole credere; in seconda battuta, perché di band che fanno quel tipo di musica, saldamente ancorata a sonorità vintage e settantiane dall’effetto revival, ce ne sono tantissime: dai Rival Sons, ai Dirty Honey, dai The Raconteurs di Jack White ai Black Country Communion di Glenn Hughes, menzionandone solo alcune tra le più conosciute. Perciò, credo sia necessario scaricare un po’ di responsabilità dalle spalle di questi ragazzi statunitensi, che non fanno nulla di diverso o di particolarmente innovativo rispetto ad altri loro colleghi.

Ha poi senso parlare di innovazione, quando la maggior parte del popolo del ‘ruock’, vittima di una crisi di mezz’età o di un’adolescenza mai conclusasi, non ascolta altro che i soliti Zeppelin, Guns, Queen e AC/DC?

Analizzando questa seconda fatica discografica dei Greta Van Fleet, per capire se siano riusciti a scrollarsi di dosso alcuni di questi pregiudizi, il primo elemento che balza all’occhio è la durata, sia delle singole tracce, che dell’album in sé. 12 brani, per un totale di 63 minuti di musica incisa. Troppi. Troppe tracce, alcune delle quali troppo lunghe. Nulla in contrario ai brani che non rientrano nei canonici 180/210 secondi radiofonici, ma se la linea melodica del pezzo è piatta e senza particolari guizzi creativi, allora 3 minuti e mezzo sono più che sufficienti.

Il risvolto positivo di questa eccessiva prolissità è sicuramente la ricerca che si cela dietro alla costruzione di ogni canzone. Se i primi singoli, usciti nel 2017, sembravano dei convincenti quanto ruffiani manufatti da sala prove, lo stesso non si può dire delle tracce contenute in The Battle at Garden’s Gate, in cui è possibile scorgere la crescita, in termini non solo anagrafici, ma soprattutto compositivi della giovane band del Michigan.

Tra i momenti migliori del disco ci sono senz’altro Broken Bells, con il suo bel solo di chitarra farcito di wah-wah (il primo che dice che somiglia a Stairway to Heaven vince una visita di controllo dall’otorino o dal neuropsichiatra) e Built By Nations, che ha, stavolta sì, un riff che ricorda quello di Black Dog dei Led Zeppelin, ma che prende poi una strada totalmente diversa.

L’album è permeato da atmosfere epiche e fantastiche, che ci trasportano in un mondo a cavallo tra storia e mito. Il carattere sinfonico e solenne di alcuni brani aggiunge spessore a quella ricercatezza dei suoni di cui parlavamo prima, coadiuvata da una buona qualità tecnica, ravvisabile sia nella produzione, che nel talento dei musicisti.

Alla luce di ciò, resta un po’ di amaro in bocca per quello che poteva essere, ma non è stato, come dicevano i Ritmo Tribale. Al termine del lunghissimo ascolto, che culmina con un altro intenso assolo di chitarra che chiude gli 8 minuti e 50 di The Weight of Dreams, c’è la sensazione di aver ascoltato un lavoro un po’ anonimo, se non per la riconoscibilissima voce di Josh Kiszka. Molto più simile a quello di Geddy Lee dei Rush, che non a quello di Robert Plant, il timbro del frontman dei Greta Van Fleet può risultare un po’ noioso e piatto, a tratti anche fastidioso.

In quest’altalena di pro e contro su cui si basa l’intera recensione, voglio concludere con due apprezzamenti: la presenza degli assoli di chitarra, animali ormai in via d’estinzione nel mondo del mainstream, e la chiara risposta che i Greta Van Fleet sono riusciti a dare a fan e detrattori con questo album.

“Non siamo una tribute band dei Led Zeppelin”.

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