Intervista a Rocco Tanica

Intervista a cura di Chiara Profili

Il 3 dicembre scorso è uscito Lo Sbiancamento dell’Anima, il secondo libro di Rocco Tanica, tastierista degli Elio e le Storie Tese, ma anche comico, autore, scrittore, attore, presentatore e, come direbbe lui, molte altre cose che finiscono in -ore.

Stimandolo molto come musicista e avendo gradito e apprezzato il suo libro, abbiamo deciso di chiedergli un’intervista, un onore che ci ha gentilmente concesso.

Ciao Rocco, cominciamo quest’intervista prendendo spunto dalla domanda che avresti voluto porre a Kobe Bryant: ti piace la musica? [la domanda che Rocco aveva preparato per Bryant, ospite da Linus e Nicola Savino a Radio Deejay, e che non riuscì a passare il filtro del centralino, era: “ti piace il basket?” ndr]

Non più tantissimo. Il disamore ha avuto origine dalle mie débâcle psichiatrico-emotive, datate 2008 in forma lieve e 2013 in maniera più accentuata. Il superamento di queste fasi cupe mi ha fatto comprendere che avevo passato troppo tempo a occuparmi perlopiù di musica, in particolare dal vivo. Ero passato dall’eccitazione per la partenza, il viaggio e la performance alla noia e alla difficile sopportazione del meccanismo. Non mi piaceva più andare in giro. Fare le prove, soprattutto. Vorrei che esistesse lo sparaflash di Men in Black, che ti fa dimenticare un periodo o te lo fa vivere senza eccessivo coinvolgimento o fastidio; lo dico perché per me il lavoro di gruppo è sempre stato un’impresa dalla gestione complicata. In genere mi annoio, c’è troppo rumore, mi fanno male le orecchie e non vedo l’ora di andare a giocare con la PlayStation. Certi “innamoramenti”, a volte momentanei e a volte duraturi, per discipline come la fotografia, l’elaborazione grafica, la scrittura, la simulazione di volo, mi hanno ulteriormente motivato a lasciar perdere ciò che mi pesava e a dedicarmi ad altre passioni.

Cogliamo la palla a balzo per domandarti, dunque, se prenderai parte al concerto reunion degli Elio e Le Storie Tese, tanto voluto dal Trio Medusa. Ricordiamo che l’evento si terrà a Bergamo, nel 2021, e avrà come scopo quello di finanziare progetti musicali, dando una spinta alla ripartenza di un settore duramente colpito dal Covid-19.

Ho intenzione di fare un’offerta cospicua per la causa, così se non dovessi partecipare non mi si potrebbe accusare di menefreghismo. Il dilemma attuale è: se vado a suonare devo farlo gratis, perché si suona pro bono. Ma se non ci vado rientro nella categoria dei beneficiari dell’operazione in quanto musicista disoccupato. Ho optato quindi per una richiesta-capestro al Trio Medusa: dato che loro sono in grado di far riunire i complessi sciolti e che hanno entrature ad alti livelli, devono convincere Penelope Cruz a praticarmi il facesitting. Ovviamente lei deve essere lieta di farlo, per contribuire alla causa del Cesvi o perché attratta dalla mia faccia come sedile. In quel caso il mio sì sarebbe incondizionato, ma fino a quel momento mi riservo la facoltà di decidere.

Parliamo un po’ del tuo libro, Lo Sbiancamento dell’Anima. Quanto ci hai messo a scriverlo?

Circa quattro anni, non avevo fretta di concludere. L’intenzione era quella di mettere su carta fatti che ricordavo, esattamente come li ricordavo. C’è differenza tra la memoria di un evento, già danneggiata di suo dalla distanza storica e da una serie di filtri diversi – primo fra tutti la tendenza ad autoassolversi quando il ricordo butta male – e la narrazione che si fa di quell’evento. Non volevo scrivere il testo che mi ascoltavo riferire alle persone nelle serate conviviali bensì l’impressione che mi girava in testa; il ricordo originario, ammesso che esista. Ho smesso di divulgare gli episodi verbalmente (sono molto chiacchierone) in favore della trasposizione scritta di quelli che valeva davvero la pena mettere nero su bianco.

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In che modo li hai selezionati?

Sono partito scegliendo quelli che erano a mio parere i più divertenti. Il titolo del libro, nelle mie intenzioni, doveva essere Hello Kitty spiegata ad Al Qaeda, un pezzo che avevo scritto per puro intrattenimento personale e che è stato il viatico, il vero pronti, via! de Lo Sbiancamento. Anche se poi ho finito per non pubblicarlo. Si trattava di una lezione tenutasi – solo nella mia fantasia, purtroppo o per fortuna – a Kandahar, Afghanistan. Un’operazione divulgativa a beneficio di un commando talebano desideroso, per motivi terroristici, di conoscere usi e costumi occidentali e del Sol Levante. Nella storia venivo assoldato per spiegare la fenomenologia di Hello Kitty partendo dalla storia di Yuko Shimizu, l’autore, passando dal grande successo in Giappone e Corea, all’esplosione del merchandising, fino al dilagare del marchio dal mercato nipponico a quello occidentale.

Sarebbe stata anche interessante, come dissertazione.

Ce l’ho lì pronta, in un cassetto bellissimo. Può darsi che decida di pubblicarla in futuro. Tornando al libro, mi sono accorto che le parti divertenti costituivano il gancio, l’occasione per una forma di racconto talvolta più intima e malinconica; che la smargiassata del “facciamo ridere a tutti i costi” poteva andare d’accordo anche con la storia del funerale di mia nonna e i suoi inaspettati risvolti comici. Anche i momenti più tragici della vita devono – diciamo possono, per puro istinto di sopravvivenza – strappare un sorriso.

Alla fine è venuto fuori un bel lavoro di oltre 500 pagine, piacevole, scorrevole e interessante.

Le pagine in origine erano circa 800. Ma siccome Joyce c’era già stato e Ulysses è un amico, non ho voluto mettermi in competizione. Per non imbarazzare né lui né gli eredi. Così ho già pronto più di metà del secondo volume.

Scrivere questo racconto autobiografico, un po’ tragicomico, è stato per te terapeutico?

Sì, è una terapia che ti fa anche guadagnare qualche euro. L’alternativa è devolvere gli stessi euro alla cassa di previdenza degli psichiatri.

Anche il titolo Lo Sbiancamento dell’Anima si riferisce a questo, o è solo un gioco di parole con il nome di un trattamento estetico?

È un gioco di parole. Nei pressi di casa mia c’è una clinica di chirurgia estetica. Un giorno, osservando il listino delle prestazioni e relative specifiche, ho scoperto che lo sbiancamento dell’ano è tra le più praticate. Mi sembra un’attività nobile. Ad ogni modo, il libro è stato terapeutico anche solo per avermi fatto mettere a fuoco eventi che non ricordavo di ricordare. Ad esempio quando ho fatto lo sbiancamento dell’ano. No, scherzo. L’evento ri-memorato è il benvenuto, o malvenuto a seconda del punto di vista, ricevuto da bambino per voce dei ‘nonni’ nell’antica colonia estiva di Cesenatico; criminali di 13/14 anni cantavano: “T’aspetto a Cesenatico”, di Secondo Casadei. Un’accoglienza sinistra, presagio di sventura sottoforma d’intrattenimento musicale.

Sono riemerse memorie che avevi rimosso.

Forse la rimozione è un meccanismo diverso. Io sono un semplice smemorato che riordinando casa ha ritrovato calzini perduti. Decine di paia più alcuni calzini singoli. Credo di non avere ammorbidito nessun concetto, non avere arrotondato per eccesso o per difetto. Ciò che è riportato nei frammenti autobiografici è accaduto veramente. I capitoli con l’asterisco davanti, invece, sono “infingimento o panzana” come indicato nelle note. Per confondere le acque, trattando di personaggi realmente esistenti o esistiti, ho semplicemente mescolato date, luoghi e nomi per garantire la privacy di chi tiro in ballo.

Dai contenuti del libro, ma anche dalla tua attività di intrattenitore, abbiamo dedotto che tu possa essere un fan di Ricky Gervais: è corretto?

Sì, è uno dei miei punti di riferimento, non tanto per i contenuti comici (credo che esistano decine di comedian con materiale più potente del suo) ma perché è fra i pochi che riescono ad affrontare temi controversi, chiamiamoli così, fregandosene della percezione da parte dei media e del pubblico “sensibili e corretti” che gridano allo scandalo blasfemo. Immagino che essere miliardario e intoccabile aiuti, ma Gervais si permette battute sui morti, sui trans, sui gay, sugli etero, sui politici, sugli ebrei, sulle giraffe e su quant’altro lo possa interessare. Credo che il suo massimo, finora, lo abbia dato non tanto nel materiale comico tout court, appunto, quanto nell’asserzione di principi che reputo verità assolute. Uno su tutti: “Se ti senti offeso non significa che tu abbia ragione”. E ancora: “Smettetela di dire non puoi scherzare su tutto. Puoi. Puoi scherzare su tutto il cazzo che vuoi. E a qualcuno non piacerà e ti dirà che non gli piace. Poi sta a te decidere se te ne frega qualcosa o no. È un buon sistema”.

Oltre a Gervais, quali altri comedian apprezzi e che tipo di comicità ami di più?

Devo citare tutta l’epopea dei Monty Python, i quali hanno realizzato materiali che erano fantascienza comico-letteraria alla fine degli anni ’60, ma che se venissero proposti come inediti oggi potrebbero essere considerati avanguardia pura. Un altro attore e autore che amo particolarmente è Sacha Baron Cohen. Al di là dei suoi personaggi più popolari (Ali G, Borat, Brüno) ha raggiunto quello che considero uno dei punti di comicità più alti e sublimi con “Who is America”, del 2018. [Per approfondire: Who Is America ndr]

Sacha Baron Cohen ha sempre fatto anche tanta autoironia, non essendosi risparmiato con scenette che ripropongono i cliché sugli ebrei.

La parola giusta è proprio ironia, e autoironia di conseguenza. L’ironia è quella figura retorica attraverso la quale si afferma il contrario di ciò che si pensa allo scopo di attirare l’attenzione su un argomento. È quello che la gente non percepisce quando s’infervora sul web per una battuta che ritiene “scorretta”. Quando l’ironia contiene un risvolto comico o una battuta, allora diventa sarcasmo. Sarebbe tutto più semplice se le persone acquisissero questo dato.

Un altro comico inglese che adoro è Milton Jones. Nella mia personale top 10 delle battute, due sono di Milton Jones. “Una giovane coppia discute. Lei sta piangendo, inconsolabile. Il fidanzato le domanda il perché; lei risponde che il giorno prima il suo cane è morto investito da un auto. Il fidanzato ribatte: ‘Amore, lo so bene. Per questo te ne ho regalato uno uguale’. E lei: ‘Appunto, cosa me ne faccio di un secondo cane morto?'”. L’altra chicca miltonjonesiana presente nella mia top Ten è stata pronunciata in un programma BBC, Mock the Week, nel quale si scherza sugli eventi della settimana; c’è una rubrica nella quale viene fornita una risposta e bisogna desumere la relativa domanda. Per esempio, la risposta è ‘406’ e i partecipanti allo show provano ad indovinare: “406 è il numero di amanti minorenni di R.Kelly nell’ultimo mese” oppure “406 è il numero di bestemmie dell’allenatore del Chelsea quando l’Arsenal gli ha segnato un gol negli ultimi 5 secondi”. Milton Jones risponde: “406 è il numero di giorni in cui i gamberetti devono restare fuori dal frigo affinché il tuo party risulti veramente indimenticabile”.

Geniale. A questo punto, avendo un po’ capito che tipo di comicità apprezzi, ci aspettiamo di sentire un altro nome.

Louis C.K.?

Proprio lui.

Me la sono spassata nelle date milanesi di circa un anno fa. Era in ottima forma.

Lo sketch di ‘of course, but maybe’, è uno dei più belli di sempre.

Lui è un illuminato, oltre che una grandiosa testa di cazzo. Ma a questo proposito c’entra quello che chiamo controvalore in oro. Cioè: si possono fare battute anche estreme, quelle che io adoro, o proporsi in modo sgradevole; ma sull’altro piatto della bilancia dev’esserci materiale prezioso a compensare. Cerco di spiegarmi: posso fare una battuta anche sui bambini down, se la battuta strappa una risata ai più. Se poi la mamma del bambino down si offende mi dispiace per lei, ma questo non toglie potenza, profondità o valore alla battuta. Louis C.K. è diventato uno dei miei punti di riferimento, come Gervais, non tanto per il suo repertorio comico quanto per un avviso che dà all’inizio dello spettacolo: “Benvenuti, sono Louis C.K.. In questa circostanza racconterò cose che penso e cose che mi capitano. Non mi aspetto che voi siate d’accordo con ciò che dico, sicuramente qualcuno potrà trovarlo irritante od offensivo, ma questo è il motivo per cui sulle vostre sedie avete trovato un taccuino e una matita, con i quali potrete annotare le vostre osservazioni ed obiezioni. Queste verranno raccolte dall’incaricato che vedrete passare con un cesto, e portate direttamente all’inceneritore”.

Per quel che riguarda la comicità italiana, invece?

Fra i giovani mi piace molto Valerio Lundini. Non sono molto aggiornato sulle novità, ma ho un forte legame con i grandi maestri della comicità italiana di cui sono stato spettatore in gioventù o con i quali ho avuto il privilegio di lavorare. Fra tutti Claudio Bisio. Bisio è un comico naturale, oltre che una persona spassosa anche nella vita. Quest’ultimo particolare è tutt’altro che scontato. Diversi geni della comicità sono persone riservate, spesso noiose, nel privato. Se ci riferiamo agli immortali si prendano Totò, Charlie Chaplin, tanti altri. Groucho Marx diceva di aver conosciuto Chaplin e di aver trascorso una serata con lui e le rispettive mogli: a detta sua, una delle tre serate più meste della sua esistenza.

Un altro attore italiano che ritengo il mio guru è Maurizio Milani. Lui è meraviglioso perché riassume in sé alcune caratteristiche che trovo di incommensurabile valore e bellezza. Riuscire a fare ragionamenti poetici e “alti” usando un linguaggio semplice; proporre con disinvoltura quel tipo di umorismo che definisco “imbarazzante senza riscatto”. Lui fa una battuta e metà sala, anzi di solito è meno della metà, ride a crepapelle; gli altri rimangono attoniti. Lui commenta brevemente (“E questo era un altro pezzo poco valido”) poi passa ad un altro argomento.

Abbiamo parlato molto di artisti britannici, perché tu sei un po’ un inglese di adozione, dal momento che hai una casa a Londra e ci vai spesso.

Sì, ci passo più tempo possibile.

Avrai una padronanza della lingua piuttosto buona.

Of the course.

Visto che sei uno scrittore e autore, nonché uno che sta molto attento alla dialettica, quale tra le due lingue, ovvero inglese e italiano, pensi sia più adatta alla musica e alla prosa, perché più melodica o più ricca di sfumature?

Devo dare due riposte diverse. Uso della lingua scritta e parlata: essendo italiano di nascita (e non avendo studiato profondamente l’inglese, solo praticato con la lettura e la conversazione) sostengo ovviamente l’italiano per la ricchezza di vocaboli e sfumature e per la musicalità degli enunciati. È qualcosa a cui faccio molto caso, uno dei motivi per cui ho impiegato tanto a scrivere il libro; lo stesso concetto lo ribaltavo dieci volte, finché non rotolava bene. La mia idea è che lo scritto debba avere una sua valenza estetica. Una frase deve essere: bella da vedere, scorrevole da leggere, piacevole da sentire e semplice da pronunciare.

E non è cosa facile.

No, non lo è. Per quanto riguarda la musica, invece, è palese come l’inglese sia più semplice dell’italiano nella scrittura musicale, potendo disporre di un gran numero di parole in cui la vocale finale viene elisa e all’ascolto risultano tronche (es. before, manage, create) mentre l’italiano è una lingua sovrappopolata di parole piane o sdrucciole. Quando c’è l’esigenza di chiudere un verso in italiano bisogna spesso andare a cercare parole accentate. Questo spiega la sovrabbondanza di così, perché, non c’è, sei tu, nelle canzoni italiane. In inglese è più semplice ed è il motivo per cui anche molta gente che non la pratica così bene si mette a scrivere canzoni in inglese o in grammelot: perché risulta più facile riempire il metro poetico. [Il grammelot è un linguaggio scenico che non si fonda sull’articolazione in parole, ma riproduce alcune proprietà del sistema fonetico di una determinata lingua o varietà, come l’intonazione, il ritmo, le sonorità, le cadenze, la presenza di particolari foni, e le ricompone in un flusso continuo, che assomiglia a un discorso e invece consiste in una rapida e arbitraria sequenza di suoni. ndr Fonte: Treccani]

Vuoi raccontarci qualcosa della tua vita londinese?

La mia casa è un miniappartamento con tutto quello che serve, come si dice. Affaccia su un parco, ha un piccolo terrazzo che il mio vicino agghinda di piante fiori e aiuole in stile giapponese. Avendo superato quella che chiamo urgenza del turista, cioè non dovendo farmi bastare i giorni di permanenza per visitare i principali luoghi d’attrazione, trascino un’esistenza pigra dal punto di vista mondano. Cammino, frequento musei e giardini (una passione antica, ne parlo nel capitolo Fenton House), ho i miei ristoranti e pub del cuore, frequento pochissime persone. Tra i dolori della vita londinese vi racconto di questo, che forse porterà alla fine del mio rapporto di coppia in quanto provo grande invidia nei confronti della mia fidanzata: il mio quartiere è a poca distanza da Hampstead; ebbene ‘sta fortunella ci ha incontrato per caso Ricky Gervais e ci ha scambiato quattro chiacchiere. Possiede anche una foto, scattata dalla compagna di lui, che li ritrae mentre parlano, Ricky con i sacchetti della spesa in mano. E io maledizione non c’ero.

Tornando brevemente al libro, tra le pagine spicca chiaramente la figura di Sergino, ovvero il Rocco Tanica bambino e preadolescente. Come sei riuscito a caratterizzare così bene quel personaggio, al punto da renderlo simpatico e facendoci empatizzare con lui come se l’avessimo conosciuto veramente?

La descrizione degli eventi d’infanzia è particolarmente dettagliata perché ho usato un accorgimento, uno stratagemma tecnico: narrare storie antiche, ma attribuendo al bambino di ieri i ragionamenti dell’adulto di oggi. Ad esempio, ogni tanto faccio riferimento alla situazione politica dell’epoca, citando il Presidente della Repubblica Saragat e le avventure del PSDI. È ovvio che da bambino non potessi averne una chiara percezione. Trovo che questo sia un buon espediente comico.

Lo Sbiancamento dell’Anima si avvale anche di un’altra tecnica narrativa, se così si può difinire, ovvero l’utilizzo delle note, godibili appieno nella versione e-book. Non è una cosa frequente da trovare, soprattutto in un libro autobiografico.

Sì, non credo sia così frequente in narrativa, forse più nella saggistica. L’inserimento delle note era nato perché di solito apro una grande quantità di parentesi: parlando del fatto A mi vengono in mente l’A1, A2 e A3 e li voglio inserire; oppure sento la necessità di di entrare nel dettaglio di altri che reputo indispensabili alla comprensione dell’argomento. Esempio: se nomino Édith Piaf non posso dare per scontato che tutti la conoscano. A quel punto confido nella curiosità del lettore e nella sua possibilità di approfondire da solo l’argomento Edith Piaf oppure mettermi a raccontare di Edith Piaf (una notevole rottura di balle). Ma una pagina ha bisogno di ritmo, e un racconto non è la voce di un’enciclopedia. Da qui l’iniziativa delle note, che si sono susseguite a valanga finché ho deciso di mettere anche dei collegamenti ipertestuali di varia natura. Sono suddivisi in note di testo (quando rimando alla Treccani o Wikipedia), reperti sonori (link di Spotify, YouTube) e visivi (testuali, fotografici, audio, video e geografici).

Tra i più interessanti, ci sono proprio quelli geografici, che, con l’ausilio di Google Maps, mostrano al lettore i luoghi di cui tu parli.

Quelle che preferisco sono le note che rimandano a StreetView, il servizio di Google Maps. C’è un episodio, Lotta greco-romana, in cui racconto di essere rimasto semi-ostaggio di un matto in California, a Santa Cruz. Strano ma vero, ricordavo l’indirizzo. Cercandolo col sistema di cui sopra ho rivisto esattamente la casa di cui parlavo ed è stato un tuffo al cuore anche per me.

Tornando alla musica, sempre nel libro racconti di come tu ti sia proposto in maniera piuttosto spudorata a Roberto Vecchioni e Francesco Guccini. Quanta sfacciataggine serve per riuscire ad avere successo come musicista? Sono cambiate le cose, da allora?

Serve tutta la sfacciataggine che il talento è in grado di supportare. Se fossi andato da Vecchioni e lui mi avesse chiesto di suonargli una canzone che non conoscevo, o l’avessi suonata da schifo, non avrei cavato un ragno dal buco. Mi sono proposto a quegli artisti che avevano un repertorio che già praticavo per passione e intrattenimento personale. Non sarei andato a fare lo sbruffone da De Gregori, perché sapevo suonare solo ‘Rimmel‘! Essendo stato un adolescente malinconico, che aveva fatto indigestione di Vecchioni e Guccini e dei temi più adulti che loro trattavano, mi sono presentato con buone possibilità di farla franca. In taluni casi non ce l’ho fatta, in altri mi è andata bene. Da arido calcolatore ho anche puntato sulla quantità, come per le mail di spam: se ne spedisco mille, due che ci cascano li trovo. E infatti li ho trovati. A ripensarci, sono state avventure alla Forrest Gump: un individuo marginale si ritrova, per caso o per qualche merito personale, a contatto con personaggi enormi. Un meccanismo simile al tema cinematografico per me più affascinante, il viaggio nel tempo.

(Photo credits: Radio DeeJay)

Quindi un altro dei tuoi film preferiti sarà Ritorno al Futuro.

Ovviamente. Particolare sconosciuto ai più: avevo realizzato un progetto per il secondo album degli Elio e le Storie Tese, Italyan, Rum Casusu Çikti. Essendo all’epoca totalmente preso dalla saga di Ritorno al Futuro, avrei voluto impostare il disco come fosse un concept album in cui gli Elio e le Storie Tese si trasferivano alla fine degli anni ’70 e ne combinavano di ogni. Avevamo già scritto Supergiovane, che è un tuffo in quelle atmosfere vintage, e nei miei piani c’era la richiesta di utilizzo alla Warner Bros. di alcuni frammenti sonori del film e di altri costruiti ad hoc. Avevo già, ingenuamente, preparato la lettera per la liberatoria e avevo anche contattato il doppiatore di Doc. Brown/Christopher Lloyd, Dario Penne all’epoca, chiedendogli di re-interpretare Doc a partire da spezzoni del copione adattati per l’occasione. Lui si era gentilmente prestato, ma poi le cose andarono diversamente; gli altri Elii non erano particolarmente entusiasti e comunque non ci mancavano le alternative; il disco finì per diventare un’altra cosa.

Comunque una gran bella cosa, ma si sa che far parte di un gruppo significa scendere spesso a compromessi.

Il gruppo È un compromesso. Questo non ha necessariamente una valenza negativa o il sapore della rinuncia: ciò che perdi nella mancata affermazione del tuo punto di vista lo guadagni in un totale che è maggiore della somma delle parti. Se ad esempio io faccio una proposta che viene corretta da Faso, integrata da Cesareo e poi assemblata da Elio, alla fine si scopre che 10+10+10+10 fa 50, e non 40. La canzone il più delle volte è diventata più bella, il testo più efficace. Ed è per questo che le nostre canzoni o i nostri dischi migliori sono quelli che recano la traccia di un contributo collettivo. Abbiamo anche un sacco di belle canzoni che sono state scritte per lo più dall’uno o dall’altro. Rimangono belle canzoni, ma non hanno quel sapore di altre che a distanza di tempo possiamo definire dei piccoli capolavori.

Una bellissima citazione, presa dal tuo libro, recita: “In ogni caso, la musica l’hanno già scritta tutta Bach, Mozart e Lennon/McCartney. Quello che viene dopo è una ripetizione”. È un’iperbole o la pensi esattamente così?

È senz’altro un’iperbole; per essere una verità dogmatica dovrei conoscere tutta la musica e al contrario sono un ascoltatore lacunoso e pigro. L’affermazione nasce da un’osservazione che cominciai a fare in età giovanile e che mi diletto a ripetere e cioè: se ascoltando qualcosa che non conoscevo e che mi fa una buona impressione per una soluzione armonica particolarmente fortunata, una melodia azzeccata o altro – che si tratti dei Chainsmokers, un album cinquantenne di Don McLean o qualsiasi novità per cui si gridi al miracolo – facendo mente locale scopro sempre che esiste qualcosa di Lennon/McCartney, o un tema di Mozart, Hendel o Bach che ne ha anticipato il contenuto e la qualità. Come se il seme della buona musica si tramandasse nel tempo.

Fotografie ROCK ringrazia Rocco Tanica per la gentile disponibilità.

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