Intervista a Stefano ‘Edda’ Rampoldi

Amici di Fotografie ROCK, eccoci con una nuova intervista esclusiva, siamo molto felici di proporvela e sappiamo che molti di voi l’apprezzeranno.
Questa volta l’artista che ci ha gentilmente concesso il suo tempo è Stefano Rampoldi, in arte Edda, cantautore milanese, noto ai più per essere stato la voce dei Ritmo Tribale dalla loro nascita, fino a metà degli anni ‘90. Con la band ha pubblicato sei album, di cui l’ultimo nel 1995. Dopo la sua uscita dal gruppo e dodici anni di silenzio, Edda è ritornato sulle scene musicali come solista nel 2008 e da allora ha inciso quattro dischi ed un EP.

FOTOGRAFIE ROCK: Ciao Stefano, preferisci che ti chiamiamo Stefano o Edda?

STEFANO: Stefano, o Ste.

FR: Allora Stefano, come hai passato queste feste?

SR: Ho suonato, sia il giorno di Natale che a Santo Stefano. Farò qualche concerto anche a Gennaio, sto portando avanti il tour di ‘Graziosa Utopia’ in giro per l’Italia, in attesa del nuovo disco, che uscirà sempre a Gennaio.

FR: Quindi novità in arrivo. Facciamo, invece, un tuffo nel passato: com’è iniziata questa tua avventura nel mondo della musica?

SR: La musica mi è sempre piaciuta, fin da bambino. Mi feci regalare una chitarra quando ero molto piccolo, non l’ho mai usata! Ma ricordo che mi piaceva cantare, fin dall’asilo.

FR: Molto precoce!

SR: Sì, ascoltavo tanta musica, quella che passava alla radio. Poi a dodici anni mi sono fatto ricomprare una chitarra e ho iniziato ad usarla. Suonavo le canzoni che ascoltavo alla radio, provavo a riprodurle.

FR: Cosa ascoltavi?

SR: Mi piaceva Bennato, ma anche Crosby, Stills, Nash & Young. In generale ascoltavo tanta musica italiana, i primi dischi che ho comprato sono stati quelli dei cantautori, ‘Rimmel’ di De Gregori ad esempio. Ogni sabato, con la mia paghetta, andavo a comprare un disco. Erano gli anni ‘70, l’epoca delle radio libere. Ascoltavo e compravo di tutto.
Poi, l’ultimo anno delle superiori, ho incontrato, fra i banchi di scuola, i ragazzi con i quali ho formato i Ritmo Tribale. Ormai ero un fervente chitarrista, unimmo la nostra passione musicale in quel progetto.

FR: Abbiamo qui davanti a noi proprio un disco dei Ritmo Tribale, il bellissimo ‘Mantra’. Ovviamente conosciamo bene anche la vostra discografia antecedente, quella di fine anni ‘80, inizio ‘90, quando facevate quel genere cosiddetto ‘crossover’, o rock alternativo.

SR: Sì, il famigerato crossover. All’epoca di ‘Mantra’, invece, avevamo già raggiunto la popolarità.

FR: Deviamo per un attimo dalla musica: tu sei un Hare Krishna, giusto? Lo sei ancora?

SR: Certo, invecchiando lo sto diventando sempre di più. Sono un Hare Krishna dal 1983.

FR: E com’è nata questa vocazione?

SR: Probabilmente nella mia vita precedente devo essere entrato in contatto con qualcosa degli Hare Krishna, e quando ho compiuto vent’anni, mi si è riproposta la possibilità da parte di Krishna di mettere la mia vita su un altro binario. Cosa che ovviamente non ho fatto.

FR: Beh, in effetti fra i vari dogmi di questa religione o dottrina, ci sarebbe il fatto di non drogarsi…

SR: Anche quello di non fare crossover! Soprattutto mi pento di quello.

FR: Quindi pensi che il vostro errore più grande sia stato quello di omologarvi? Di seguire un po’ la moda di quel periodo?

SR: Sì, il fatto di non aver avuto forse un’identità ben precisa. Un errore di gioventù, diciamo. Comunque con i Ritmo abbiamo fatto bella musica.

FR: Il Italia, negli anni ‘90, avevamo musica rock molto valida. L’abbiamo, forse, un po’ sottovalutata?

SR: Non so se negli anni ‘90 ci sia stata buona musica, in Italia. Io preferisco quella degli anni ‘70.

FR: Ci riferivamo, però, al rock in particolare.

SR: Ma a me non piace il rock! O meglio, mi piace, ma preferisco altre cose. Non ne sono un gran patito. Specialmente in questo periodo.

FR: Forse hai fatto un po’ indigestione? Dopo le feste…

SR: Probabilmente sì. Dopo tanti panettoni e pandori, ti devi disintossicare.

FR: Una domanda diretta: cosa ne pensi del proibizionismo? Secondo te, la voglia di trasgredire è direttamente proporzionale al valore che la società da a ciò che è proibito?

SR: No, secondo me dipende dalla quantità d’ignoranza che una persona ha dentro in quel momento. È l’ignoranza che ti porta a drogarti o a bere, ad andare a 300 all’ora in macchina o ad accoltellare una persona allo stadio. Non credo sia dovuto al fatto che ci siano leggi che lo proibiscono.
Per ignoranza intendo un’energia che c’è in questo universo e che ti condiziona. Ci sono la passione, l’ignoranza e la virtù. Quando sei molto ignorante, purtroppo, vieni trascinato con delle corde che ti tirano in basso e poi ne paghi le conseguenze. Poi te ne rendi conto e fai marcia indietro, ma la voglia di drogarsi nasce da una tendenza che hai dentro, non dalle leggi che te lo vietano.

FR: Una sorta di debolezza che ci portiamo dietro dalla nascita?

SR: Dal karma precedente, siamo come i dischi rigidi del computer. Tutto è accumulato dentro di noi dalle vite precedenti, da quello che abbiamo fatto.
Quando te ne accorgi cerchi di cambiare rotta e di slegarti da queste energie e da ciò in cui ti sei lasciato trascinare.

FR: Tra le varie regole degli Hare Krishna ci sarebbe anche l’astinenza dal sesso, se non con il proprio coniuge, con la funzione di procreare. Tu non sei sposato, giusto?

SR: Non sono sposato. Ma vedete, quelle sono le regole rigide per coloro che stanno cercando di uscire dal ciclo di nascita e morte, è un protocollo per quelle persone che non riescono più ad identificarsi con se stessi e con il mondo, non apprezzandone più i valori materiali.

FR: Nel tuo pezzo ‘Per Semper Biot’ dici:
“Di religione sono Hare Krishna
E magni minga i gat
Ma in Dio non ci credo
Me piasan tropo i tusan”.
(I ‘tusan’ sono le ragazze)

SR: Sì, avete capito benissimo la situazione in cui mi trovo… come dire ‘vorrei essere Jimi Hendrix, ma so fare solo il giro di Do’. Ma a furia di fare il giro di Do, piano piano, si impara. Da qualche parte bisogna pur iniziare.

FR: Nello stesso pezzo dici anche: “Nascere in Argentina e non morire neanche in Inghilterra”. Ci ha fatto pensare alla battaglia delle Falkland, cosa volevi dire con questa frase?

SR: Mi sarebbe tanto piaciuto nascere in Inghilterra, ma avrei rischiato di nascere in Argentina. Poi alla fine sono nato in Italia.

FR: Forse eri inglese nella tua vita precedente? O magari nella prossima.

SR: Chissà, speriamo… o speriamo di non rinascere per niente.

FR: Concludiamo l’argomento Hare Krishna con un’ultima domanda. Sei vegano?

SR: Quasi totalmente, non mangio uova, carne e pesce. Ma comunque non mi sono mai piaciuti, quindi non è una rinuncia faticosa.

FR: Abbiamo letto che hai lavorato come operaio negli ultimi anni, lo fai ancora?

SR: Per otto anni ho fatto ponteggi, ma ho smesso nel 2013. Ora ho ricominciato a dedicarmi solo alla musica, ormai sono quasi in età da pensione.
Dite che me la danno la pensione con dieci anni di contributi?

FR: In Italia è difficile, ma puoi provare a chiedere il reddito di cittadinanza.

SR: Quello non me lo danno, perché faccio i concerti. Ma andrò comunque a prendere l’opuscolo.

FR: Mentre lavoravi con i ponteggi, riuscivi lo stesso a dedicarti alla musica o le due cose non erano conciliabili? Tempo fa abbiamo parlato con Pino Scotto che ci ha detto di aver lavorato in fabbrica per 35 anni, proprio per poter fare la musica che voleva lui, libero dalle logiche economiche.

SR: Grande Pino, lui è un esempio. Io sono stato un po’ più fortunato, faccio la musica che voglio io, ma non sono dovuto andare in fabbrica. Ho lasciato i ponteggi perché non riuscivo a fare i concerti, quindi sì, non potevo conciliare le due cose. Però mi piaceva, mi tenevo in forma, vedevo la città dall’alto e ne traevo ispirazione per qualche testo.

FR: Fra poco uscirà il tuo nuovo disco, ma anche quello dei Ritmo Tribale. Chissà se uscirete contemporaneamente. In che rapporti siete rimasti? L’ultima vostra collaborazione è stata nel ‘96. Vi siete più rivisti?

SR: No, ‘Psycorsonica’ è stato l’ultimo disco che ho fatto con loro. Non abbiamo mai litigato, non ci siamo mai detti cose cattive, ma poi io mi sono allontanato, sono sparito per tredici anni, in seguito sono tornato, ma non vivo più a Milano. Ogni tanto li seguo sui social, ma non abbiamo contatti telefonici.

FR: E ti dispiace?

SR: Ma no… io sono un tipo un po’ pesante. Comunque li seguo quando escono con nuovo materiale, l’ultimo singolo l’ho ascoltato e mi è piaciuto.

FR: Certo, i loro testi non saranno mai come i tuoi…

SR: Andrea Scaglia lo apprezzo molto come persona, suona bene. Abbiamo un modo diverso di scrivere, ma lo reputo un ragazzo simpatico e intelligente. Comunque ho un bel ricordo dei Ritmo Tribale, prima di essere un gruppo siamo stati degli amici. Lo siamo ancora, o almeno, io mi reputo ancora amico loro, quindi sono contento che il loro percorso stia continuando.

FR: Da fan, non finiremo mai di ringraziarvi per la musica che ci avete regalato in quegli anni. ‘Mantra’ rimane, secondo noi, uno degli album più belli di musica italiana, per quanto riguarda quel genere. Certamente in quegli anni c’erano tanti altri bei gruppi, gli Afterhours, i Casino Royale, i Bluvertigo, i Negrita, c’era Alex Britti che ancora suonava soltanto blues. Comunque alla fine quello che conta è che uno sia soddisfatto della musica che ha fatto e che continui a farla ancora con la stessa passione.

SR: Sicuramente la passione per la musica è ciò che ci accomuna, quel motore che ci ha sempre spinti, un qualcosa che abbiamo dentro. L’importante è riuscire a fare sempre la musica che ci piace.

FR: Forse, però, non tutti ci riescono, a fare solo ciò che piace. Ritornando ad Alex Britti, ad esempio, quando faceva blues ha suonato con artisti importanti, ma probabilmente, continuando in quella direzione, non sarebbe arrivato lontano.

SR: Forse è così, ma Cristina D’Avena penso che faccia quello che fa perché le piace.

FR: Ma ha sempre fatto quello. È stata coerente. Mentre trasformarti da bluesman ad autore di canzonette…

SR: Per me ha fatto bene, il blues è pallosissimo! A me piacciono le canzoncine che Alex Britti ha scritto dopo.

FR: E della musica italiana contemporanea cosa ci dici?

SR: Lì faccio un po’ fatica, forse non riesco più io ad essere in sintonia con ciò che c’è adesso. Però, ad esempio, Calcutta mi piace. In generale, difendo la categoria. Penso che se uno suona, lo fa perché ha passione. Che si preferisca il blues, il rap o la musica classica, alla fine siamo tutti dei manovali, degli architetti, degli ingegneri della musica. Ho stima e apprezzo tutti. È un lavoro talmente difficile, con nessuna sicurezza, per cui alla fine perché lo fai? Perché ti piace. Un po’ anche per narcisismo, ma non c’è solo quello.

FR: Un artista, senza un po’ di narcisismo, che artista è?

SR: Ma certo, altrimenti sarei rimasto anch’io a fare i ponteggi ed ero felice lo stesso.

FR: Il lavoro dell’artista non è un lavoro come un altro, nasce da una necessità, è anche difficile da spiegare.

SR: Beh, gli artisti che conosco io sono tutte persone strane! Per cui probabilmente è giusto che facciano quello. Ed è comunque un lavoro talmente precario, nessuno ti paga lo stipendio e non puoi sapere in anticipo se un disco farà successo.

FR: A meno che tu non sia un produttore di quelli di oggi, che preparano i dischi a tavolino, cavalcando il mood del momento.

SR: Questo lo so, non voglio apparirvi naïf, lo so benissimo che ci sono le logiche di mercato, però anche lì: come fai ad essere sicuro che un disco farà successo? Quello che ci mette la faccia, alla fine, è sempre l’artista. Siamo una categoria simpatica, dai.
Comunque adesso c’è molto rap, ci sono molti talent show… a me non piace il rap, o meglio, qualcosa mi piace, ma dopo un po’ mi mancano la melodia e il cantato. Però è interessante, ben venga anche il rap.

FR: Sei un tipo ‘social’?

SR: Mi piacciono i ‘social’, ma non sono uno fissato. Fino all’anno scorso avevo un telefonino tipo il Brondi, quello per gli anziani. Adesso è giusto che mi sia aggiornato, però vedete, ho 55 anni e ho preso la patente a 40. Sono sempre stato un po’ in ritardo…

FR: Ma con la musica eri avanti prima degli altri.

SR: Non so se fossi avanti, adesso ho il pallino dei Matia Bazar. Ascolto solo loro ultimamente, quelli del periodo con Antonella Ruggiero. Non solo per la sua voce, ma anche per i testi delle loro canzoni; erano perfetti. Perfetti anche per il periodo. Gli anni ‘70 sono stati davvero i migliori per il pop, per il rock, per il punk. I miei preferiti. Secondi solo agli anni dal ‘63 al ‘70, con lo Zecchino D’Oro. Lo Zecchino è fondamentale.
Comunque la musica italiana migliore c’è stata negli anni ‘70.

FR: Però negli ‘80 e ‘90 c’eravate voi…

SR: E abbiamo rovinato tutto!

FR: Per tornare al famoso pentimento per il crossover…

SR: Probabilmente ho gusti un po’ poco moderni, ad esempio, per me il rock sono i Beatles.

FR: Eppure spesso viene fuori la solita diatriba: “ma i Beatles sono rock o no?”.

SR: I Beatles sono i Beatles, erano quattro geni.

FR: Concludendo, cosa ti senti di consigliare ai giovani che si approcciano al mondo della musica?

SR: Vi rispondo con una battuta: per fare musica bisogna essere sensibili, per essere sensibili bisogna smettere di mangiare la carne, le uova ed il pesce. E poi auguro a tutti di poter suonare e cantare sempre la musica che vi piace.

Chi non ha mai sognato di essere nato in un altro posto, oppure di morire chissà dove.
A volte, certi sogni restano solamente dei sogni ad occhi aperti, li mettiamo in un cassetto, e nel frattempo continuiamo a vivere la nostra vita, fluttuante, come una bottiglia spinta dalle onde del mare.
C’è chi insegue i propri sogni e chi i sogni degli altri, c’è chi ha invece abbandonato la festa proprio sul più bello, che non dev’essere mica facile, ci vuole coraggio, o forse solo follia.
Ma alla fine, cosa saremmo senza la sensibilità… un dono talmente raro, che ancor più raro è riconoscerne l’importanza e il peso che ne consegue da essa. A volte è necessario cambiare per ricominciare, come diceva qualcuno tempo fa, mentre a volte è sufficiente allontanarsi dal rumore della città.

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