Bruce Springsteen: recensione di Born in the U.S.A.

Recensione a cura di Andrea Musumeci

4 Giugno 1984. Esce il settimo album della carriera di Bruce Springsteen, Born In The U.S.A., per la CBS Records, che diventerà il suo più grande successo commerciale, con oltre 15 milioni di copie vendute soltanto negli Stati Uniti.
Born In The U.S.A. è un album con sonorità più positive rispetto alle lande grigie, desolate e cupe di Nebraska.

Born in the U.S.A. vede la luce durante l’era Reagan, il quale tentò di adulare il Boss nel tentativo di sfruttare la sua popolarità per alimentare la sua propaganda elettorale. Reagan, però, non riuscirà a trovare nel Boss un complice per la sua strategia elettorale: Bruce Springsteen prese addirittura le distanze da quell’attestato di stima e, soprattutto, dalle idee politiche di Reagan, visto che il Boss aveva sempre cantato la cultura popolare americana e difeso quella classe operaia illusa e poi abbandonata proprio dalla classe politica.

Mentre all’inizio degli anni ’70 il rock era il genere più popolare e nasceva come reazione politica al governo Nixon, a metà anni ’80, invece, il genere più di tendenza era l’heavy metal, che si uniformò all’ideologia repubblicana di quel periodo, racchiudendo tutta quella retorica dell’era Reagan.

Alla fine degli anni ’70, lo scenario economico del mondo occidentale aveva subìto grosse trasformazioni: a causa dell’annientamento del sistema keynesiano, insieme al conseguente indebolimento dello Stato Sociale e alla sconfitta dello Statalismo, Ronald Reagan e Margaret Thatcher instaurarono un nuovo orientamento politico ed economico, denominato neoliberismo, ideato per combattere l’inflazione, dando così il via al concetto di privatizzazione. Un cambiamento che segnerà profondamente anche i decenni successivi.

La pace economica del crescente capitalismo del glorioso trentennio – che va dal dopoguerra fino al 1975 – superò il punto di saturazione, trasformandosi in crisi di sovrapproduzione, crescita dei salari e calo dei profitti, incertezza nel cambio di valuta con il dollaro e conseguente inflazione. Tutto questo, però, fu una diretta conseguenza della “prima crisi petrolifera”, nel 1973, anno in cui alcuni paesi arabi, principali produttori ed esportatori di petrolio, aumentarono in maniera considerevole il prezzo del greggio, come ritorsione nei confronti dei Paesi Occidentali che avevano appoggiato Israele nella “Guerra dello Yom Kippur”, mettendo così in ginocchio l’economia degli Stati Occidentali, soprattutto quella del vecchio continente, fortemente dipendente dall’utilizzo del petrolio come fonte unica di energia per la produzione industriale.

Furono anni bui, i famosi e famigerati “Anni di Piombo”, che videro l’aumento di episodi di violenza, dei disordini nelle strade contro le forze dell’ordine, delle proteste accese contro la politica dei governi che, da lì a poco, avrebbero trovato il modo per arginare lo spettro dell’inflazione, con l’unico intento di salvaguardare il principale detentore di crediti, ossia il sistema bancario, affossando sempre di più la fascia sociale povera e indifesa.

Gli effetti, dunque, furono devastanti: la crisi energetica fu uno tsunami economico e sociale senza precedenti, che tornò con una seconda scossa, seppur di entità più lieve, nel 1979, e che durò fino al 1982, anno in cui il prezzo del petrolio iniziò finalmente a scendere, di modo che i mercati finanziari tornarono a sognare una nuova ripresa economica e lo sviluppo di fonti di energia alternative. Non sembrano così lontani quei tempi.

Ronald Reagan, evidentemente, pensò che non era necessario sprecare tempo a leggere e comprendere tutto il testo di Born In The U.S.A., ma estrapolò e strumentalizzò in maniera arbitraria soltanto il ritornello, cosicché il brano del Boss, da canzone di protesta contro la guerra nel Vietnam e contro le conseguenze ai danni dei reduci di quella guerra iniziata ai tempi di Nixon, divenne semplicemente uno slogan positivo, un inno al patriottismo americano da cantare durante i comizi politici.

Nel video di I’m on Fire – uno dei tanti grandi successi del Boss – troviamo Springsteen nei panni di un meccanico, mentre una bellissima donna in carriera porta la sua Ford ad aggiustare nell’officina in cui lavora, pretendendo che sia solamente lui ad occuparsene. Nella scena finale del videoclip, l’operaio Bruce Springsteen raggiunge la donna nella sua splendida villa in collina: sta per suonare alla sua porta per dare alla donna quello che lei gli ha sempre fatto intendere di volere. Ma a quel punto, Bruce si ferma, sorride e infila le chiavi della macchina nella buca delle lettere.

Bellissima e iconica la copertina dell’album, che ritrae, verosimilmente, un Bruce Springsteen fotografato di spalle, con addosso un paio di jeans, un berretto probabilmente da baseball nella tasca posteriore dei jeans e come sfondo la bandiera statunitense. Il messaggio era chiaro e inequivocabile, checché ne pensasse Reagan: la classe operaia non si arrende mai, si rimbocca le maniche e trova sempre un motivo per resistere e andare avanti a testa alta.

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