Edda
Fru Fru
22 febbraio 2019
Woodmorm Rec
Genere: disco funk, elettro-rock
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Recensione a cura di Andrea Musumeci
Dal suo debutto da solista sono trascorsi ormai parecchi anni e ancora oggi Stefano Rampoldi, in arte Edda, racconta le sue storie, i suoi pirotecnici flussi di pensiero, la sua duplice personalità di uomo e artista, con tenerezza, cinismo, dolcezza ed autoironia, ma in modo meno irruente ed autolesionista.
Ancora aggrappato alla graziosa utopia della salvezza spirituale, Edda ha portato avanti la sua crescita interiore e professionale senza prendersi mai troppo sul serio, sempre a metà tra la tragedia e la voglia di sorridere dei guai.
Il 22 febbraio 2019 Edda ha pubblicato il suo quinto album solista dal titolo FRU FRU, mostrandosi in una veste sonora (curata dall’ormai inseparabile amico Luca Bossi) completamente inedita rispetta al recente passato. A Bossi vanno riconosciuti i meriti per aver fatto un egregio lavoro sull’aspetto degli arrangiamenti, cogliendo quelle che erano le intenzioni di freschezza e spensieratezza di Stefano.
Il ‘nuovo’ Edda ci regala sonorità più radiofoniche, orecchiabili e affini al suo gusto musicale, sulla falsa riga di quei classici motivetti della musica leggera italiana della tradizione, con quei ritornelli che ti rimanevano impressi.
Del resto, lo ha dichiarato Edda stesso: “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù, è un pezzo che spacca”. Aggiungendo che a lui, il rock, non è mai piaciuto. E ce lo ha dimostrato appieno con questo nuovo disco. Dalle numerose recensioni sul web, abbiamo potuto leggere di tutto, anche di un Edda paragonato a Raffaella Carrà. Ma, verosimilmente, l’intento del cantautore milanese era proprio questo.
C’è dunque un rinnovato desiderio di leggerezza da parte di Stefano, lo si intuisce già dal titolo della release e dalla sua copertina, sulla quale appare il famoso biscotto wafer (che nel Nord Italia chiamano proprio Fru Fru), appoggiato su uno sfondo color tuorlo d’uovo, oppure arancione Hare Krishna, fate voi.
Apre le danze, nel vero senso della parola, la canzone E Se: ad un primo ascolto, viene da chiedersi: ma che è sta roba disco funkeggiante? Dove sono finite quelle belle schitarrate rabbiose di Stavolta Come mi Ammazzerai?
E Se comincia con il verso “E se mia madre mi rendesse padre, è incesto. E se mio figlio mi nascesse morto, è meglio”, e continua con “Fammi godere con le dita”.
Insomma, quale miglior incipit per mettere le cose in chiaro sin da subito. Le parole di Edda trasmettono sempre la stessa elettricità: viscerali, impopolari, provocatorie, divertenti Testi che arrivano dritti alla bocca dello stomaco e poi giù, come un sospiro in fondo ai piedi.
Il riff disco funky di The Soldati ricorda parecchio il sound Daft Punk feat. Pharrell Williams di Get Lucky; brano in cui Edda storce un po’ il naso nei confronti di quel genere di musica italiana troppo piaciona e paracula: “Non c’è molta distinzione tra un cantante e un coglione”. Come dire: alla fine, per fare il cantante non bisogna essere così intelligenti, ma avere piuttosto qualche santo in Paradiso.
The Soldati è un bel tormentone estivo fuori stagione. Già me lo immagino Edda che sculetta e balla la breakdance in mezzo alle luci stroboscopiche, e noi sotto il palco a cantare “Sono frocio a Natale, sono quello che ti pare”.
Imprescindibile, invece, la musa ispiratrice Matia Bazar, gruppo storico tanto caro a Stefano, nel brano Italia Gay: “E tu come fai, tu che non muori mai”. Viene da chiedersi: cos’è che non muore mai? Probabilmente l’omofobia, le discriminazioni sociali di cui siamo ancora oggi vittime e carnefici. Stefano vorrebbe un’Italia più “gaia”, meno classista, che vada oltre la censura mentale e opprimente dei tabù.
Non è un caso la citazione “Un’ora sola ti vorrei”, tratta dalla famosa canzone di Umberto Bertini del 1938, un classico della musica italiana durante il periodo fascista, riportato al successo popolare parecchi anni dopo da interpreti come Ornella Vanoni e Giorgia.
Edda è, invece, un tenero omaggio di Stefano a sua mamma, scomparsa di recente. La sofferenza della vecchiaia è un dolore per chiunque: c’è chi idealizza la morte come catarsi, come liberazione dell’anima da un corpo ormai stanco che si trasforma e rinasce sotto altre forme, che, in linee generali, è il credo spirituale degli Hare Krishna.
Dagli anni ’80, Edda ha sposato il pensiero di questa dottrina orientale, non a caso è anche vegetariano, anzi, vegano. Il tema Hare Krishna torna nel brano Samsara, che nel significato equivale al Nirvana. Edda fa riferimento ai valori del sacrificio, della privazione, del rispetto di ogni forma di essere vivente, del rifiuto di ogni forma di violenza. Inoltre, le religioni orientali sono molto devote agli animali, li considerano sacri e dotati di un’anima, al pari degli esseri umani, e perciò intoccabili.
“Preferirei saperti di un’altra, che giri i musei, che lecchi la fica, e bevi l’aranciata, Piuttosto che averti, e di vederti soffrire”. Questa frase, tratta dal brano Vanità, somiglia ad una dichiarazione d’amore incondizionato. La forza di lasciare andar via qualcuno a cui teniamo e la vanità del nostro ego. È una possibile interpretazione.
A volte le parole di Edda sono come carezze, verso tutti quelli incasinati come lui, e come tutti noi. E allora, Vela Bianca suona come una dedica a qualcuno, oppure semplicemente a tutti noi. “Noi diseredati dalla vita, aspettando il godimento, lo percorriamo in salita”. Questo è il senso di Abat-jour. “Con tutto quello che guadagno cosa mi posso comprare?”. Al massimo una lampada da pochi euro.
Ovidio e Orazio parla, invece, degli anni del liceo e dei primi impulsi sessuali. Col senno di poi, hanno davvero un’utilità pratica tutti quegli studi classici, quando invece devi far fronte ai casini della quotidianità, della realtà, del sesso e dell’amore? “Ovidio e Orazio mi avete rotto i coglioni, preferisco i santi, almeno quelli lo fanno bene”. In questa canzone, Edda elogia l’operato di San Francesco, che parla agli animali, e bacchetta Sant’Agostino, che invece mangia gli animali. È vero: i santi sono tutti santi, ma poi, alla fine, ci sono santi e santi.
Sicuramente, Orazio avrebbe trovato miglior rima nella parola ‘cazzo’, ma poi non avrebbe rispettato la lunghezza della nota, ergo serviva una parola più lunga che rendesse comunque l’idea.
“Sputami in culo, io son già bagnata”: non mancano i riferimenti sessuali espliciti. D’altronde, oggigiorno, viviamo in un contesto culturale in cui la forma è importante, c’è grande suscettibilità e finto perbenismo, mentre siamo circondati, quotidianamente, da immagini atroci. E così, in maniera del tutto naturale, mi ritrovo a cantare quel ritornello così accattivante: “Tu che non hai, più bisogno di me, sono quella che sono, non un’erezione”.
In conclusione: al netto di qualsiasi percezione soggettiva, non credo ci sia tutta questa necessità di interpretare ogni singola parola di un artista come Edda. All’interno di uno stesso testo sembrano convivere più idee, in apparenza addirittura scollegate tra loro, ma è il suo modo di scrivere, che sembra imprevedibile e istintivo, ma è altrettanto funzionale e ragionato.
A volte è bello anche “godere solamente con le dita”, lasciandosi trasportare semplicemente dalla musicalità delle parole e dalle emozioni che ne scaturiscono, un po’ come quando si ascoltano le canzoni dei Beatles.
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