George Harrison: recensione di All Things Must Pass – 27 novembre 1970

Quando si parla di George Harrison
è inevitabile l’accostamento e il rimando musicale alla leggenda dei Beatles. Con loro aveva già solcato le cime più alte della fama accaparrandosi un posto tra i giganti della musica di tutti i tempi.

Allo scioglimento del magico quartetto avvenuto nel 1970, per contrasti irreparabili, i quattro baronetti intraprendono progetti solisti, alcuni dei quali di indiscutibile successo. È questo il caso di All Things Must Pass, prodotto, esattamente 50 anni fa, quasi interamente nei fantasmagorici Abbey Road Studios di Londra, con la collaborazione di Phil Spector come produttore.

Il disco, composto originariamente da tre LP (di cui uno composto da jam session strumentali), esce il 27 novembre del 1970 per Apple Records e diventerà il capolavoro dell’intera carriera solista di Harrison. Un periodo, questo, di forte cambiamento per il Beatle ormai adulto e con una maturità artistica pronta ad essere immortalata. Effettua diversi viaggi in India che lo portano ad una profonda conversione intimista e lo ispirano anche musicalmente.

I’d Have You Anytime ci introduce in questo viaggio ascetico nelle profonde sonorità di Harrison. Il brano è stato scritto insieme al collega e amico Bob Dylan, nel 1968, nella casa di Woodstock. Scelto come pezzo di apertura, è imbastito dei tipici sound beatlesiani. La chitarra a noi così familiare ci intrattiene in superbi intermezzi melodici, supportati da un delicato assolo di Eric Clapton. Dal tocco elegante e raffinato, un pezzo d’amore che ricalca l’intenzione di fare parte appieno della vita di un ipotetico amore.

Let me in here, I know I’ve been here
Let me into your heart”, questo il verso conclusivo che ci abbraccia come se fossimo noi i destinatari del messaggio.

La traccia più bella dell’intero album la troviamo immediatamente dopo, ed è My Sweet Lord. Un brano dal carattere gospel con chitarre acustiche e una melodia squisitamente orecchiabile.
Nel testo è presente un’antica preghiera induista, oltre al verso “Hare Krishna” che viene ripetuto come un mantra durante tutta la seconda metà del pezzo. Presenti anche cori, tratto tipico del genere sacro gospel.

La traccia numero cinque del primo disco, intitolata Isn’t It a Pity, è una ballata mistica che porta ancora con sè l’impronta dei Beatles. La chitarra di Harrison, però, ci distoglie dal passato musicale per trasportarci in una dimensione docile e sognante. Il titolo ci propone una riflessione retorica che viene approfondita nel testo. L’autore si chiede se sia un peccato che nei rapporti si prenda tanto, senza mai restituire.

Con If Not For You si rinnova la stima per Bob Dylan. Il brano è infatti una cover che Harrison aveva già suonato con il menestrello d’America, autore del brano, durante alcune sessioni improvvisate, pochi mesi prima. In questa versione, la firma dell’ex Beatle è la slide guitar, che diventerà il tratto distintivo della sua carriera solista.

Del secondo LP sono assolutamente da menzionare la prima traccia, Beware of Darkness, una ballad di rara bellezza, e la title track, che era stata scritta, come molti altri brani presenti in questo album, quando Harrison faceva ancora parte dei Beatles, i quali avevano tentato di registrarla durante le sessioni di Let It Be, decidendo infine di accantonarla e di passarla a Billy Preston. Possiamo affermare con certezza che un brano del genere non avrebbe affatto sfigurato su Let It Be, ma probabilmente c’è un tempo giusto per ogni cosa.

All Things Must Pass è un disco da apprezzare sorseggiando del buon thè, per godersi la suadente malinconia che bagna queste canzoni, ricordandoci che non è mai troppo tardi per riscoprire gioielli di questa caratura. Perle artistiche che colorano le nostre vite con canzoni intramontabili, di una celestiale bellezza.

Simona Iannotti

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