Peter Green: recensione di The End Of The Game

Peter Green

The End Of The Game

Reprise Records

15 giugno 1970

afro-beat, funk, blues, jazz, psych rock, fusion

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

15 giugno 1970: dopo essersi separato dai Fleetwood Mac (da appena un mese), il bluesman britannico Peter Green manda alle stampe il suo primo album solista dal titolo The End of The Game, edito per Reprise Records.

Si era da poco aperto un nuovo decennio, sulla scia di quel fatidico 1969, stagione fondamentale per l’arte e ricca di eventi significativi: la “summer of love” di Woodstock, il concerto dell’Isola di Wight, il manifesto generazionale di Easy Rider, la consacrazione della psichedelia sulla scena hard rock anglosassone, la genesi del krautrock, lo sviluppo della musica elettronica e la nascita di Arpanet, predecessore di internet, sconvolgimento storico che, da quel momento, avrebbe portato cambiamenti irreversibili su usi e costumi della società fino ai giorni nostri.

L’idealismo pseudo-politico-collettivo della mentalità hippie dei ’60 (il cosiddetto “flower power”) stava per essere spazzato via a favore di una nuova coscienza individualista e nichilista, così come l’epoca del riempimento che, da lì a poco, sarebbe stata rimpiazzata da quella della sostituzione e dalla conseguente diminuzione della produzione: il primo passo verso la disoccupazione e la consapevolezza del fallimento degli anni del boom economico.

Insomma, nel dopo Woodstock la scena rock non sarebbe stata più la stessa: quella colonna sonora e quell’idealismo ottimista di radice californiana che insieme avevano alimentato sogni, speranze, utopie e critica sociale delle nuove generazioni di tutto il mondo (della famosa Beat Generation), da lì a breve, si sarebbero trasformati e dissolti in qualcosa di polarizzante e disgregante.

È in questo squarcio temporale che trova la sua collocazione l’opera strumentale The End Of The Game di Peter Green (al secolo Peter Allen Greenbaum); una lunga e oscura jam session fusion dall’animo latino nel sangue, un antesignano ed eccentrico crossover condensato in sei brani che scorrono sui solchi lacerati e struggenti di un caleidoscopico flusso di coscienza folk blues.

Al suo interno confluiscono contaminazioni e sfumature trascendentali, vampate progressive, amplificazioni sensoriali e incandescenti marchiate Gibson Les Paul Lemon Drop, alterazioni espansive e liquefatte di effetti wah-wah, atmosfere dilatate e speziate, ritmiche sincopate afro-jazz, sferzanti plettrate funky e cascate etnico-percussive che si espandono a macchia di leopardo, senza coordinate stilistiche prestabilite, in mezzo a profumazioni di incenso, verso direzioni ignote e oniriche, dove culti sciamanici e riti sacrificali precolombiani concorrono ad una rappresentazione profetica, abissale e definitiva del potere evocativo della musica rock.

The End Of The Game è un viaggio ascetico, allucinato e onnivoro nelle cavità di quel demone blues che, divincolandosi dai legami convenzionali del pentagramma rock, si cala nell’entroterra incontaminato e anarchico di luoghi che sanno di esilio e di memorie primordiali: un tempo relativo, deformato, inafferrabile e surreale che annulla ogni attrito con la cronologia di quel presente, rievocando la visionarietà di certi dipinti di Salvador Dalì; una lente d’ingrandimento che tende a decostruire ogni genere di distinzione tra sacro e profano, generando quella che è una dimensione scandita dal passo felino, epidermico e lisergico di congas, bonghi, bacchette e tom di Godfrey Mclean, dalle frequenze dei bassi gommosi, cavernosi e pneumatici di Alex Dmochowski e dai tappeti sonori “doorsiani” dei piani elettrici e degli organi Hammond di Zoot Money e Nick Buck, dove la chitarra autarchica del “sacerdote” Peter Green disegna tenui e lucenti paesaggi cosmici.

Un’intricata vegetazione sonora mista sydbarrettiana ed hendrixiana che ruggisce, si tormenta e si agita a briglie sciolte in un susseguirsi di estemporanei cambi di traiettoria, attraverso l’insanità di forme immateriali e avveniristiche di cerchi e spirali: se da un lato regalano momenti di imprevedibilità febbrile, quando desolante, effimera e solitaria e quando caustica, dissonante e indemoniata, dall’altro si bagnano in un fuoco trance-spirituale di psichedelia tribale ombrosa, liturgica e spettrale, tra danze di pellerossa, spiriti tribali dell’Africa nera e frenesia misterica, risucchiando il tutto nel microclima umido di una giungla dai suoni ascendenti e discendenti, che finiscono per immergersi nella lucida disillusione degli anni ’60.

La naturalità dell’estro musicale e schizoide di Peter Green nasconde (al di là del classico binomio tra genio e sregolatezza, e di quel filo conduttore che collega abuso di droghe, pazzia e musica rock) cicatrici e significati ben più profondi; inquietudini da ricercare ben oltre il fascino magnetico e sessantiano della sua Black Magic Woman, ma piuttosto nell’abuso di LSD e nei buchi neri della sua psiche che, come le pennellate visionarie, espressioniste e animalesche di Antonio Ligabue, solo la follia delirante e la malinconica dolcezza delle note graffianti dell’ex cofondatore dei Fleetwood Mac ed ex dei John Mayall & Bluesbrakers sembrano poter colmare e raffigurare.

The End Of The Game fu, dunque, il canto del cigno di Peter Green: la fine dei giochi, di un’epoca, insieme alla “sparizione” di un talento raro ed autolesionista che, all’apice del suo percorso creativo, colpito da una crisi mistico-religiosa e complice una precaria (eufemismo) tenuta psichica a causa di uno smodato dosaggio di sostanze stupefacenti, ha scelto la via eremitica, estraniandosi dal mondo circostante per ritirarsi a fare volontariato tra Stati Uniti, Israele ed Europa.

Il chitarrista inglese scomparve dalle scene, finendo in un vortice senza ritorno: fece il barelliere in un ospedale, fuggì in Bangladesh, poi in un kibbutz israeliano, venne ricoverato in ospedali psichiatrici e arrestato per possesso di armi. Tornò a comporre soltanto alla fine degli anni ’70, con la registrazione In The Skies, lavoro discografico eseguito soltanto per meri doveri contrattuali non risolti, ma decisamente lontano dall’immaginario di The End Of The Game.

Passato quel terribile periodo, Peter Green rientrò nel circuito musicale gradualmente, con piccole partecipazioni: solo negli anni ’90 tornò a pieno regime con il suo nuovo gruppo, Peter Green Splinter Group, pubblicando ben otto dischi. Morì nel sonno soltanto un anno fa, nel luglio del 2020, all’età di 73 anni, lasciando ai posteri il ricordo indelebile di uno degli artisti blues più influenti di sempre e l’epitome della sua anima dannata, ovvero, quel capolavoro senza tempo che porta il nome di The End Of The Game.

Membri della band:

Peter Green: chitarra

Zoot Money: pianoforte

Nick Buck: tastiere

Alex Dmochowski: basso

Godfrey Mclean: percussioni

Tracklist:

1. Bottoms Up

2. Timeless Time

3. Descending Scale

4. Burnt Foot

5. Hidden Depth

6. The End Of The Game

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