Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri: recensione di Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri

Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri

Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri

Garrincha Dischi

27 maggio 2022

genere: heavy rock, post-rock, alternative rock

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

“Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”. (Antonio Gramsci)

A distanza di due anni dallo scioglimento ufficiale de Il Teatro Degli Orrori, Pierpaolo Capovilla ha dato vita al nuovo progetto denominato Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri – formazione completata da Egle Sommacal dei Massimo Volume, Fabrizio Baioni dei Leda e Federico Aggio dei Lucertolas – mandando alle stampe l’album d’esordio omonimo, edito lo scorso maggio per Garrincha Dischi.

Un nuovo step autorale – composto da dieci canzoni, concepite e scritte fra il 2018 e il 2019, nel clima di profonda instabilità politica, geopolitica ed economica che gravava (e grava tutt’oggi) sul nostro Paese – attraverso il quale Pierpaolo Capovilla (uno degli ultimi baluardi di certa musica politicizzata) mette a nudo il proprio mondo interiore, raccontando a suo modo, nell’unico modo che conosce, fatto di coerenza intellettuale, vena sanguigna, corpo a corpo verbale, pungente sarcasmo, crudele realismo e, soprattutto, grandissimo cuore, l’abominio atroce delle guerre, le diversità avvertite ancora come una minaccia, la mercificazione delle vite umane, la solitudine, i fallimenti e i nostri psicodrammi quotidiani.

“Viviamo in un perpetuo stato di guerra globale. La guerra sembra divenuta il cuore stesso del sistema economico e politico. Di fronte a tutta questa violenza non posso tacere. Questo sistema imperiale è un gigantesco inganno, è un mostro, e noi ne facciamo parte. Il mio mezzo prediletto per dire ciò che penso è la canzone”. Queste le parole di Capovilla per spiegare il concept di questa nuova esperienza discografica.

Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri sono da considerarsi veri e propri superstiti di un mondo alternativo in cui di alternativo è rimasto poco o nulla. D’altronde, nel nostro bel Paese, siamo ancora alle prese con una dimensione di provincia, in cui la tradizione viene spacciata per modernità, traghettando falsi moralismi, retorica, conservatorismo e una cultura sempre più bigotta, ipocrita e tendenzialmente fascista, che vive ancora nel timore di dio e nell’inganno della somiglianza con dio.

“È sempre così, e non c’è verso di cambiare direzione, famiglia, percorso culturale, è sempre così, il mio Paese è sempre uguale, e non cambierà mai”.

D’altronde, la percezione della contemporaneità, con le sue fratture e le sue contraddizioni, è quella di un mondo marcio, miserabile e disumanizzato, senza più luoghi fisici di aggregazione (“che ha rinunciato a se stesso tanto tempo fa”), che dal un lato disconosce l’esperienza del passato e dall’altro rigetta ogni prospettiva di avvenire, dirigendosi inesorabilmente verso l’incubo di una sconfitta senza via di scampo. Hanno vinto il capitalismo e i guerrafondai coi loro slogan pseudo-umanitari: “oil for food”.

Nel frattempo, le voci del dissenso sono state integrate a un sistema di controllo di governo e private della loro libera espressione di lotta, mentre propaganda e informazione hanno stretto alleanza attraverso le nuove logiche del regime mediatico, svendendo emozioni come in un qualsiasi discount di quartiere e contribuendo ad aumentare il desiderio di consumismo, alla spettacolarizzazione del dolore e alla fabbricazione di stati d’animo collettivi. Che si tratti di drammatiche immagini di guerra, oppure di quiz e varietà d’intrattenimento popolare.

Eppure, il mondo è andato avanti comunque. Noi siamo andati avanti comunque (“ma che mi frega a me della Guerra del Golfo, due milioni di morti, sto bene lo stesso”), nonostante l’orrore, la brutalità, l’indifferenza e un’empatia che, oggigiorno, rincorre solamente consensi virtuali, confluendo verso derive etiche patologiche e inquietanti. Come cantano gli Yo La Tengo nel loro nuovo album: “questo stupido mondo mi sta uccidendo, questo stupido mondo è tutto ciò che abbiamo”.

La copertina del disco, ad opera del giovane pittore Romanì Vasco Hadzovich, che raffigura un Cristo Gitano, esprime un forte attaccamento alla causa dei migranti e delle minoranze etniche, accanto alle quali Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri si schierano per lanciare un messaggio di integrazione e solidarietà.

“Dovevi stare a casa tua, e che Dio ti aiuti, se esiste oppure no, non lo sa nemmeno lui. Morte ai poveri! Io prima ti derubo, poi ti butto via […] Numeri, numeri, numeri soltanto numeri. Una questione statistica, una questione per farti capire il problema”.

Così, Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri sono riusciti a radunare sotto lo stesso tetto mitragliate combat-rock (se non addirittura metal-oriented, vedi Morte Ai Poveri, La Guerra del Golfo), luccicanti fraseggi post-rock misti a quel senso di inquietudine umorale che rimanda ai Massimo Volume (La Città del Sole, Anita), sinistre dissonanze noise, hard rock melodico di estrazione Smashing Pumpkins (Follow The Money) e ambientazioni intime e contemplative (Dieci Anni, La Città del Sole), rimarcando il tempo che passa inesorabilmente davanti ai nostri occhi, con una malinconica e tormentata forza evocativa, congiunta a una commossa e rassegnata nostalgia.

“Ma vorresti solamente restare a casa a guardare la tv e non pensare a niente, a tutto questo affannarsi quotidiano”.

All’interno dei contenuti testuali troviamo anche storie di carcere (Dieci Anni), racchiuse nelle poesie di Emidio Paolucci, detenuto nella Casa Circondariale di Pescara, che scandiscono l’esistenza di chi il destino ce l’ha già segnato, una struggente dedica alla memoria del combattente italiano Lorenzo Orsetti (La Città del Sole), e di tutti quelli che con coraggio rischiano la loro vita per quell’ideale chiamato pace, ed infine l’amara riflessione sulle tragiche conseguenze delle guerre (Sei Una Cosa), con le sue stragi di innocenti e l’avidità delle industrie belliche che seguitano ad arricchirsi grazie al business della “guerra per la pace”.

“Forse è nel cuore dei rapporti umani, oppure no, forse sono io, e questo maledetto muro dentro, che non mi fa vedere, non mi fa pensare, non mi fa cantare, non mi fa sognare, e mi lascia come un cane in un canile comunale, nell’attesa di un nuovo padrone, speriamo sia gentile”.

Dunque, in questo contesto storico di rabbia e disillusione, in cui la forbice tra ricchi e poveri si sta facendo sempre più ampia, c’è un piccolo esercito di reietti che, servendosi dell’arte come strumento di resistenza e sopravvivenza, ha ancora l’ardire di indignarsi contro la stanchezza di spirito, la massificazione del pensiero e le ingiustizie. I cosiddetti “cattivi maestri”, giustappunto. Ma i cattivi maestri, come ci insegna la storia, prima o poi risorgono: il tempo renderà loro giustizia.

Per il momento, con la sensazione di vivere un presente in balìa di una forte tempesta nel bel mezzo dell’oceano, è come se dietro tutte quelle parole pesate e pensate in maiuscolo, e così cariche di significati, ci fosse un impercettibile lume di speranza. Però, che si lasci il termine speranza a chi, in mancanza di meglio, è realmente rassegnato e non può nulla. Per tutti gli altri, invece, esiste la parola volontà.

E allora, “finché la barca va, lasciala andare, un giorno finirà questo mare di lacrime, e arriveremo là, dove vogliamo andare”.

Tracklist:

1. Morte Ai Poveri

2. La Guerra del Golfo

3. Minutegirl

4. Dieci Anni

5. Follow The Money

6. Il Miserabile

7. Più Forte Che Puoi

8. La Città del Sole

9. Anita

10. Sei Una Cosa

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