Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri – formazione completata da Egle Sommacal dei Massimo Volume, Fabrizio Baioni dei LEDA e Federico Aggio dei Lucertolas – hanno pubblicato, nel maggio scorso, il loro primo disco omonimo, composto da dieci brani inediti dal taglio autobiografico e dalla presa live garantita.
L’ex frontman de Il Teatro degli Orrori, Pierpaolo Capovilla, ci ha gentilmente concesso un’intervista nella quale ci ha parlato di questo nuovo progetto, dell’album e di sé.
Pierpaolo, quando hai capito che la condizione di semplice fruitore musicale iniziava ad andarti stretta? Quando hai deciso, quindi, di dare voce alla tua idea di musica e metterla al servizio degli altri? Del popolo, come hai affermato più volte. Quali erano, allora, le influenze musicali e/o letterarie che illustravano i tuoi stati d’animo?
PpC_ Metà anni Ottanta. Ero un adolescente. Adoravo il prog-rock inglese, dai Genesis ai Supertramp, Yes, King Crimson. Non ascoltavo altro. Poi, una volta iscrittomi al Liceo, mi feci degli amici che mi spinsero verso il punk-rock. Fu una rivoluzione interiore, e non solo musicale. Incominciai a suonare il basso in un gruppo di giovanissimi che amavano i Black Flag e i Dead Kennedys. La cifra intellettuale di quel massimalismo punk era la rivolta morale e politica contro la società dei consumi. Fu un mutamento irreversibile. La scena americana, nel tempo, con gruppi come Dinosaur Jr, Husker Du, Sonic Youth, e poi No Means No, Fugazi, e tanti, ma proprio tanti altri, diventò il nostro habitat naturale. Ma c’era anche la new-wave inglese: Joy Division, Siouxie & The Banshees, Clock DVA (i miei preferiti)… Mamma mia, fu un momento straordinario. In quel periodo, la fine degli Ottanta, tutti facevano a gara per suonare qualcosa di diverso dagli altri. I gruppi non cercavano il consenso, anzi, volevano sorprendere, stupire, persino disturbare gli ascoltatori. In quel clima di pirotecnica creatività ci ritrovammo rapiti e galvanizzati. Andavamo a tutti i concerti che potevamo, anche di band sconosciute. Leggevamo Burroughs, Kerouak, i poeti americani, ma anche i teorici marxisti come Marcuse, in particolare il suo Uomo a Una Dimensione. Eravamo giovani, belli, incoscienti, speranzosi.
Nel momento storico che stiamo vivendo c’è un modo di fruire la musica completamente differente rispetto all’epoca pre-internet e pre-smartphone. La maggior parte delle persone non è più abituata a vivere le esperienze con i propri occhi, ma è tutto filtrato attraverso uno schermo. Che idea ti sei fatto di questa nuova deriva comportamentale?
PpC_ Deriva o non deriva, questo è il nostro presente, e in questo presente ci ritroviamo a lottare per una musica fatta di contenuti, di poesia, e di cultura critica. I dispositivi hanno intrappolato tutti, compreso me stesso. Possiedo uno smartphone da soli due anni, e non posso più farne a meno. Per come la vedo io, i dispositivi rappresentano una gigantesca mistificazione della realtà. Siamo di fronte ad un naufragio collettivo irreversibile. Qualche tempo fa, ad un concerto de I Cattivi Maestri, una giovane donna, sotto il palco, giusto davanti a me, filmava con il suo iPhone canzone per canzone. La invitai a godersi lo spettacolo fino in fondo, senza documentarlo. Scoppiò un applauso divertito, e lei, la ragazza, fu la prima a ridere e applaudire. Si mise il telefono in tasca e cantò le canzoni, parola per parola, insieme a noi. Ecco, a volte basta una battuta scherzosa per rovesciare lo stato di cose in cui viviamo.
All’interno dei contenuti testuali del tuo progetto denominato Pierpaolo Capovilla e I Cattivi Maestri (come anche nei precedenti lavori discografici) troviamo impegno politico, guerre quotidiane, chiari riferimenti a diverse questioni sociali, tra cui quello dell’integrazione, e l’urgenza emotiva di scagliarsi contro la retorica della musica per le masse. Ci piacerebbe se potessi approfondire le sfumature tematiche presenti nel nuovo disco.
PpC_ Scrissi le canzoni del disco fra il 2018 e il 2019. I neofascisti della Lega al governo, le disumane politiche contro l’immigrazione, il volgare populismo identitario, l’aggressione alla Libia, la guerra per procura dei tagliagole jihadisti… Un inferno. Credo di aver cercato di raccontarlo, quest’inferno. Viviamo in un perpetuo stato di guerra globale. La guerra sembra divenuta il cuore stesso del sistema economico e politico. Di fronte a tutta questa violenza non posso tacere. Il mio mezzo prediletto per dire ciò che penso è la canzone. Potremmo tenere mille comizi, affermando le cose più giuste, i nostri valori e le nostre idee, ma con la canzone possiamo fare di più, perché con una canzone possiamo suonare le corde del cuore di chi ci ascolta. Ecco allora che la canzone popolare può farsi strumento di emancipazione, nel segno della fratellanza, dell’amore per il prossimo, della giustizia e dell’uguaglianza. L’esatto contrario del pantano sintattico nel quale i rospi della canzonetta d’oggigiorno, conformisti e barocchi, sguazzano allegramente, come se non ci fosse un futuro o, meglio ancora, un avvenire.
Secondo te, è ancora possibile recuperare l’essenza di questo termine, “avvenire“?
PpC_ Quel geniaccio impertinente di Slavoj Žižek ne ha scritto recentemente, proponendo un’astuta provocazione: la differenza fra futuro e avvenire. Il futuro rappresenta il perpetuarsi del presente, l’avvenire una cesura, un movimento storico in direzioni altre, con nuove idee e nuove strategie, alla ricerca di un mondo diverso da quello in cui siamo costretti a vivere. Desiderare un avvenire significa, io credo, aspirare a rapporti politici, sociali, economici, molto diversi da quelli in corso oggi, nel segno di un nuovo socialismo dei popoli e delle masse lavoratrici. Per come sono cresciuto io, per il mio retaggio cristiano e per la mia affezione al pensiero marxista, vorrei dire, a piena voce, che rinunciare alla speranza significa rinunciare alla vita.
Se da un lato il presente somiglia sempre più a un Cristo con le mani inchiodate alla croce del passato, dall’altra ci siamo accorti che il futuro che sognavamo non era poi come ce l’aspettavamo. In un certo senso, siamo stati ingannati. Secondo te, è per questo motivo che, in un loop di eterna insoddisfazione, torniamo continuamente a desiderare ciò che avevamo prima?
PpC_ La mia generazione vive il proprio passato con un sentimento di profonda e disperata malinconia. Eravamo un altro popolo, avevamo speranze e sogni da coltivare. Oggi sembra tutto perduto, e tutto ci spinge verso l’indifferenza, persino nei confronti del nostro stesso destino. Stiamo vivendo una sconfitta epocale. Facciamo un esempio, il più calzante di tutti. Nel 2001, a Genova, si incontrarono nelle strade e nelle piazze giovani e adulti da ogni parte del paese e del mondo. Le loro rivendicazioni erano tutte, ma proprio tutte, giuste, necessarie e urgenti. Abbiamo visto come andò a finire, con una mattanza repressiva che segnò il momento più buio della storia repubblicana del nostro paese. Cose del genere non accadono per caso: di fronte ad una generale presa di coscienza delle masse, le forze del Capitale hanno reagito con quell’inaudita violenza che è sua precipua caratteristica. Quel “un mondo migliore è possibile” si è gradualmente trasformato in “un mondo peggiore sta arrivando”: la resa alle circostanze storiche è esattamente ciò che stiamo esperendo. Di fronte a tutto questo, come non provare nostalgia per ciò che eravamo, e rammarico, per ciò che non siamo riusciti a diventare.
Nell’album ci sono anche storie di carcere. La canzone Dieci Anni è il frutto di un cut-up di tre poesie di Emidio Paolucci (tratte dall’opera Finchè Galera Non Ci Separi) che hai curato personalmente. Un momento molto intimo, che testimonia condizioni di rimpianto, abbandono sociale, ma mai di resa intellettuale. Vuoi raccontarci, in breve, chi è Emidio Paolucci e come è andato il vostro incontro?
PpC_ A casa avevo accumulato un po’ di pacchi, spediti da affezionati cultori e cultrici del mio repertorio. Una mattina li aprii tutti quanti, pensando… Dio, che gioia tutto questo affetto, quest’amorevolezza. Da uno di questi estrassi un libriccino di poesie. Me l’aveva spedito un detenuto, il mio indirizzo l’ebbe da un amico, Luca Pakarov, giornalista e romanziere. Lo sfogliai incuriosito e ne lessi alcune poesie, a caso, che mi sorpresero per stile e profondità. Chiamai Luca, e decidemmo di andare a conoscere Emidio. Se non sei un parente, devi fare una richiesta al Ministero di Grazia e Giustizia. Fui contattato da un funzionario di Polizia, per un colloquio. Misi in tasca le poesie di Emidio, e andai in questura. E che questura! Quella di San Lorenzo, a Venezia, è forse la più bella questura d’Italia. È in un palazzo del Quattrocento, con un’enorme sala d’attesa, il soffitto ligneo, e un immenso tavolo antico nel bel mezzo della sala; ad una parete un manifesto degli anni Settanta: “in un paese democratico, la polizia è al servizio del cittadino”… Il funzionario era un giovane colto e cortese. Mi chiese perché volessi conoscere il detenuto. Aprii il volumetto e gli lessi una poesiola, la prima che capitò. Il giovane funzionario si commosse… gli occhi lucidi… stava per piangere. Una scena che non dimenticherò mai. Di lì a un paio di settimane, io e Luca andammo alla Casa Circondariale di Pescara. Era la prima volta che entravo in un carcere. Ne rimasi, come dire, affascinato. Affascinato da quel piccolo mondo di reietti, dai bambini tutt’intorno, festosi e indisciplinati, dalle mogli affrante… Emidio si presentò con del caffè caldo e un sorriso beffardo, e ci raccontò le sue vicissitudini. Aveva un bisogno imperioso di raccontarsi. Diventammo subito amici. Non ce ne fregava niente del perché fosse in prigione, lo percepimmo repentinamente come uno di noi, un fratello, soltanto molto, ma molto più sfortunato. Emidio non assume psicofarmaci (sono a pioggia, per tutti), ma legge quanti più libri possibile. Ama Raymond Carver, e lo si evince dal suo poetare, realistico e crudele.
L’episodio La Città del Sole è una struggente dedica a Lorenzo Orsetti, il combattente italiano trovato morto tra le fila dei Kurdi confederal-democratici del PKK mentre lottava contro l’ISIS. Una sorta di abbraccio verso tutti coloro che con coraggio rischiano la propria vita per quell’ideale chiamato pace.
PpC_ Lorenzo morì in trincea, al fianco delle YPG, le unità di protezione del popolo curdo. Il suo sacrificio è la più luminosa manifestazione di come le idee possano determinare le azioni di uomini e donne che hanno a cuore la democrazia, l’uguaglianza, l’ecologia, i diritti delle donne, la pace, certo, perché di questo si tratta. Lorenzo non andò a combattere e morire in odio di qualcuno, ma per amore dell’umanità. Che Dio l’abbia in gloria.
Nella traccia Sei Una Cosa torna il tema della guerra, nel riflesso delle sue tragiche conseguenze, con la strage degli innocenti e l’avidità delle industrie belliche che invece continuano ad arricchirsi.
PpC_ “Siamo fatti così, nati per distruggere, oppure per morire”… Sei Una Cosa è un grido di disperazione e di rabbia incoercibile, vuole narrare l’indifferenza nei confronti della guerra, di tutte le guerre. Nel suo finale, quel bambino yemenita. Trovai la scena nel web, e mi si spezzò il cuore in due. Era il 22 aprile del 2018.
Non hai mai nascosto di essere comunista e cristiano: un dualismo ideologico che apparentemente sembra incompatibile, ma che di fatto non lo è nella condivisione dei principi cardine. Come vivi il tuo rapporto con la religione e cosa ne pensi di quanti, ai giorni nostri, sentono ancora la necessità di rapportarsi a un Dio o a una divinità, affidando speranze e aspettative alla fede?
PpC_ Non affido ad alcun Dio volontà e speranze. Lo dico con rammarico… Non credo in Dio. Credo nella fratellanza, nella ‘pietas’ e nella ‘con-passione’, il ‘soffrire insieme’ al mio prossimo, che sono caratteristiche cruciali del cristianesimo. Invidio coloro che confidano nel divino: sarà una banalità, ma credo siano donne e uomini più felici di me. Il credente sa rinunciare alle assurdità di ogni giorno e spesso sa scegliere la disciplina quale manifestazione della propria libertà. Mi viene in mente un sacerdote, si chiama come me, Don Nandino Capovilla, parroco alla Cita di Marghera. Don Nandino è un marcantonio sui cinquant’anni, strenuo difensore dei più deboli, degli emarginati, dei migranti, e… ha sempre uno splendido e contagioso sorriso in bocca. Don Nandino ti sorride, come se ti conoscesse da sempre. Ispira fiducia, affetto, amore, in una parola, fratellanza, appunto. Ebbi il piacere di conoscerlo in occasione di un incontro preparatorio ad una visita in Terra Santa. Io e la mia compagna eravamo lì per caso. I partecipanti erano soprattutto persone anziane e devote, per loro il pellegrinaggio sarebbe stato un’esperienza di fede più che mai importante, fors’anche cruciale. Don Nandino ebbe parole veramente sorprendenti. Disse loro -vado a memoria- “noi non andiamo in Terra santa ad accarezzare antiche pietre ormai prive di significato, non ci andiamo per pregare… ci andiamo per fare il nostro dovere di cristiani, andremo ai posti di blocco israeliani, perché quando arriviamo noi occidentali, prima o poi i soldati li aprono, permettendo il passaggio dei palestinesi, che vivono da decenni come detenuti di un’immensa prigione a cielo aperto”. Mi dissi… E questo chi è?! Ecco, se questo significa credere, allora credo anch’io, perché credo nella giustizia, e nella buona volontà di uomini e donne che non si arrendono a questa specie di paralisi intellettuale che è la guerra.
Don Nandino, che è fra i fondatori di Pax Christi – i cui sacerdoti sono stati derisi e dileggiati per la loro intransigenza sulla tragedia in Ucraina e sull’invio di armi alla stessa… poveri cristi, credono che la pace si faccia con la pace, queste anime belle! – è il perfetto esempio di una Chiesa di base che esiste, perché esiste, e che conosce il senso del Vangelo. Questa gente ha studiato i grandi teologi cristiani del Novecento, Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer, Frederich Gogarten. Una Chiesa interecumenica, sociale e valoriale, che promuove l’accoglienza, la giustizia, i diritti di tutte e tutti, senza distinzioni. Immaginiamo solo per un attimo cosa sarebbe, qui da noi, in Italia, dei nostri fratelli e sorelle migranti, se non ci fosse questa Chiesa, non ci fossero la Caritas, le Acli, Pax Christi, le innumerevoli parrocchie impegnate sul tema dei migranti. Sarebbe una catastrofe. Voglio ricordare che i miserabili e fascisti “decreti sicurezza”, quelli che gettano in strada queste povere persone, le privano degli SPRAR e di qualsivoglia strategia di inserimento, senza più alcun aiuto, condannandole alla marginalità, sono ancora in vigore, così come è ancora in vigore quell’absurdum giuridico della Bossi-Fini, che stabilisce il “reato” di immigrazione clandestina. Che Dio ci perdoni. O ci maledica.
Qual è la tua posizione in merito all’evoluzione storica del concetto di propaganda negli usi e costumi della società?
PpC_ A me sembra, e non da ieri, che propaganda e informazione siano diventate sinonimi. Osserviamo quel che sta accadendo in Ucraina… È evidente che si tratta di una guerra per procura, l’ennesima guerra americana per procura. Ci viene raccontato incessantemente il contrario, e guai a chi non si associa, non si arruola nell’esercito della propaganda statunitense. E che dire delle Torri Gemelle, la più grande menzogna di sempre? Afghanistan e Iraq non avevano niente a che fare con quell’assurdo evento, eppure sono stati invasi, prima distrutti, poi dimenticati, abbandonati al loro tragico destino. Ne ho abbastanza di questa “post-verità”. Perché a soffrire, come in tutte le guerre, sono i civili, che vogliono la pace, non la guerra. Credo sia arrivato il momento di parlarci chiaro, il momento della franchezza: questo sistema imperiale è un gigantesco inganno, è un mostro, e noi ne facciamo parte.
La scena alternative rock degli anni ’90, da cui provieni e nella quale hai avuto modo di formarti, è stata indubbiamente un bellissimo sogno, probabilmente uno degli ultimi afflati della musica rock in ambito mainstream. Oggi ci dicono che “il rock è morto”, e osservando le classifiche delle piattaforme streaming più autorevoli sembra che sia proprio così.
PpC_ Beh… Io le piattaforme, autorevoli o no che siano, non le osservo mai. Me ne infischio bellamente. Ascolto buona musica da che son nato, amo la tradizione cantautore italiana, Pino Daniele, Claudio Lolli, De Gregori, De André. Continuo a sorprendermi per dischi, anche recenti, che riescono a piacermi… L’avete sentito l’ultimo dei Mars Volta? È qualcosa di incredibile. E Bartees Strange, lo conoscete? Ci sono canzoni degli italianissimi Parsec o Zidima che, malgrado la furia rock, mi commuovono persino. Insomma, almeno sotto questo particolare aspetto, riesco a non farmi fregare dai dispositivi. La vita è troppo breve per ascoltare musica di merda.
Come si è evoluto il rapporto tra Pierpaolo Capovilla ed il pubblico?
PpC_ Ai nostri concerti vengono giovani e meno giovani, abbiamo un pubblico molteplice e intergenerazionale, e ne sono, ne siamo stratefelici. Vengono ragazze e ragazzi, donne e uomini, i più anziani si tengono alla distanza giusta, dalle parti del mixer, dove il suono è più intelligibile, visto il frastuono generale… Vedo, osservo, ogni sera, occhi lucidi, baci appassionati, abbracci fraterni. La musica a volte è come… un miracolo.
Col tempo, la società contemporanea – sfamando una cultura “usa e getta” completamente schiava delle trappole tecnologiche e delle pericolose manipolazioni virtuali della comunicazione moderna – sembra aver disperso valori come empatia e condivisione. Una società che divide i suoi abitanti in vincenti e sconfitti, rincorrendo situazioni compromissorie a discapito della qualità della vita. Tu, invece, come ti relazioni con la sovraesposizione mediatica delle nuove forme di interazione digitale?
PpC_ Credo di aver assunto, nel tempo, una postura talmente polemica da rasentare il sabotaggio culturale. Mi hanno spiegato che una delle mie pagine FaceBook ha la “spunta blu”… Non ne sapevo niente, e non l’ho richiesta io. E comunque, per me, i “social” non esistono: non sono che sovrastrutture ideologiche. Li uso per promuovere il mio lavoro, per forza!, e per dire ciò che penso, come e quando mi pare, infischiandomene delle conseguenze dovute alla sovraesposizione. Insomma, cerco di essere colui che sono, non ciò che qualcuno vorrebbe io fossi. Come dice quello slogan? “Non mi avrete mai come volete voi”. Questo è poco ma sicuro.
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