Questa settimana abbiamo fatto una bella chiacchierata con Luca Paisiello, giornalista e scrittore torinese, autore del libro ‘Il ROCK È MORTO?’.
Abbiamo parlato della scena rock italiana e non solo. Ecco cosa ci siamo detti e scopriamo se il rock è davvero morto.
FOTOGRAFIE ROCK: Ciao Luca, partiamo subito dal tuo libro. La prefazione è di Briegel, il bassista dei Ritmo Tribale, giusto?
LUCA PAISIELLO: Sì, la prefazione è nata in seguito ad una chiacchierata fatta con Paolo Martella dei Quartiere Latino, che avevo intervistato appunto per il libro. È stato lui stesso a consigliarmi di parlare con Briegel, suo carissimo amico. Dopo avermi raccontato dei Ritmo Tribale, dell’addio di Edda, del progetto NoGuru con Xabier Iriondo degli Afterhours e della sua professione di avvocato specializzato in diritto d’autore per diversi musicisti, chiedergli di scrivermi la prefazione è stata una scelta davvero azzeccata perché Briegel è un incredibile conoscitore di musica, un vero rockettaro, un gran musicista. Ha suonato con diversi artisti, fra cui Francesco Renga, dopo i Timoria. Conosce bene la scena milanese e gran parte dei personaggi intervistati per questo libro, da musicisti che hanno suonato negli Afterhours, nei Verdena, nei Prozac+, nei Timoria, nei Rats, nei Tre Allegri Ragazzi Morti, a giornalisti e organizzatori di concerti, ed è stato un grande piacere avere la sua collaborazione.
FR: A proposito di Ritmo Tribale, è uscito da pochissimi giorni il nuovo singolo di Edda. Cosa ne pensi?
LP: Edda a me piaceva tantissimo con i Ritmo Tribale. Poi, quando vidi i primi video sul suo canale YouTube, che aveva aperto nel 2008, dove lui cantava nella sua cameretta, con una luce fioca ed il nome ‘eddaponteggi’, riconobbi la sua voce… mi emozionai molto e pensai che se fosse tornato sarebbe stato bellissimo. Il suo primo disco fu una bomba, un fulmine a ciel sereno; il secondo mi ha meno impressionato, mentre il terzo è un album strepitoso, molto più rock con quelle chitarre in primo piano, veramente fantastico. Lui adesso ha fatto una scelta più cantautorale riprendendo melodie del passato e riadattandole a modo suo. Come tutti, sono più affezionato al periodo nei Ritmo Tribale, però è giusto che faccia la sua carriera solista, come i Ritmo Tribale stanno tornando sui loro passi.
FR: Sì, hanno fatto uscire due bei singoli inediti.
LP: Briegel ha raccontato che si erano frenati dopo il disco ‘Bahamas’, del 1999, non avevano raccolto molta popolarità tra gli stessi fans orfani di Edda, fu un momento terribile per loro quando non venne capita la scelta di far cantare Scaglia, che riveste con carattere le sue canzoni a modo suo, un modo che a me non dispiace. Non si può paragonare nessuno a Edda, era il primo disco senza di lui, con sonorità molto diverse, ma si tratta di un bellissimo album di musica alternativa italiana. Non è che ci fossero grandi dischi in quel periodo, a parte ‘Non è per sempre’ degli Afterhours, uscito nello stesso anno, ‘Ho Ucciso Paranoia’ degli Afterhours, ‘Armstrong’ degli Scisma e l’esordio dei Verdena, parlo di dischi che hanno inciso sulla massa. Credo che i Ritmo Tribale, in questo momento, abbiamo uno dei ‘mood’ più maturi del panorama italiano odierno e hanno ancora qualcosa da raccontare dopo vent’anni di famiglia, figli e mestieri fuori dalla musica che li hanno cresciuti.
FR: A noi sono piaciuti molto gli ultimi due inediti, specialmente ‘La Rivoluzione del Giorno Prima’.
LP: Sono giorni che lo ascolto, il testo è stupendo. Edda sapeva scrivere, era speciale, ma se prendiamo questo pezzo è veramente fantastico, lo sento molto mio quando parla di fare promesse che poi non manterremo. La cosa che più mi ha meravigliato è aver visto un video di una bambina di 10 anni che lo canta a memoria con naturalezza mentre fa un viaggio in macchina con i suoi genitori. Quando vedi queste cose non puoi pensare che per le generazioni di oggi il rock sia morto.
FR: La scrittura di Edda è molto particolare, graffiante, corrosiva. I testi degli ultimi due singoli dei Ritmo Tribale non sono paragonabili al suo modo di scrivere, ma non perché uno dei due sia superiore all’altro. Semplicemente è un altro tipo di scrittura.
LP: Sicuramente sono anche frutto di sensazioni, percorsi emozionali ed esperienze musicali differenti. E’ una fortuna che sia Edda che i Ritmo Tribale si siano riaffacciati sul mercato musicale e spero che riscuotano successo e che continuino a raccontarci le loro storie. Se penso che per un decennio non abbiamo avuto canzoni da parte loro, mi fa una rabbia. Ma è come rivedere un vecchio amico dopo tanto tempo, sarà cambiato, ma sei felice che sia ancora lì a raccontarti qualcosa.
FR: Dopo tutto questo tempo ed in questo periodo storico, è come se dovessero ricominciare da capo, ripresentandosi alla gente quasi come se fossero una band nuova, condividendo i loro video sul web prima ancora di farli uscire su disco.
LP: Con la crisi del mercato discografico le band puntano molto sulla diffusione dei singoli, ne fanno uscire uno per volta e poi vanno in tour. Perché ormai il guadagno viene dai live, non tanto dalla vendita dei dischi. Ormai tutti scarichiamo musica o l’ascoltiamo direttamente su Spotify.
FR: Qualcuno si lamenta dei prezzi dei concerti, che sono più alti rispetto al passato, ma del resto, come hai detto tu, gli artisti sono costretti ad attingere dagli eventi live come fonte di guadagno.
LP: Anche perché è sul palco che si vede se una band sa fare il suo mestiere. A campionarsi dei pezzi a casa o in studio di registrazione usando l’autotune, non dico che siano bravi tutti, però è molto semplice coprire i difetti che sul palco inevitabilmente vengono fuori.
FR: Hai detto bene, ormai anche da casa, tutti possono fare tutto e ottenere milioni di visualizzazioni su YouTube.
LP: Ci sono anche delle cose interessanti da sentire e da vedere, però ti manca un qualcosa a pelle. Io sono della vecchia scuola, strimpellavo la chitarra e avevo messo su un paio di gruppi, ho scritto questo libro anche per aiutare le nuove generazioni ad andare avanti come band grazie ai consigli dei musicisti stessi e degli addetti ai lavori di cui ho raccolto le testimonianze. Uno dei problemi maggiori è l’affiatamento tra membri della band. Puoi avere anche una casa discografica che ti sta dietro, che ti aiuta a fare i pezzi, ma tanti gruppi dopo il primo disco si sciolgono. Un altro dei motivi è la mancanza di creatività. Anche io ho iniziato in sala prove con le cover, per capire se c’era feeling tra i componenti della band, insistendo successivamente a produrre pezzi nostri, ma non vedevo negli altri membri la stessa intenzione. Loro volevano suonare pezzi dei Timoria o dei Guns N’ Roses, che certo piacevano anche a me, ma volevo andare su palco portando le mie emozioni, esprimendomi con qualcosa che fosse nostro.
FR: Forse negli anni ‘80 ancora si poteva fare, proporsi con pezzi propri. Oggi no… I gestori dei locali non ti fanno nemmeno salire sul palco se non sei una tribute band o una cover band. Ne abbiamo già parlato in altre interviste.
LP: Nel libro ‘Il Rock è Morto?’ della difficoltà di suonare i pezzi propri dal vivo nei locali ne hanno parlato non soltanto i musicisti di oggi che hanno qualche disco alle spalle, ma anche giornalisti come Federico Guglielmi, Franco Zanetti, Enrico Deregibus e diversi addetti al settore, come organizzatori di Festival o promoter. Se ti metti nei panni del gestore di un locale, a fine serata devi aver spillato un certo numero di birre e quindi devi attirare gente che voglia ascoltare della buona musica e che rimanga nel locale più tempo possibile. Questo avviene se si tratta di musica già conosciuta, che la gente sente propria e che può cantare e ballare. Questo porta, purtroppo, all’uccisione della musica alternativa italiana.
FR: Quindi il rock italiano non è morto… lo stanno ammazzando.
LP: Ogni tanto c’è qualche bravo artista che prova a portare avanti pezzi propri, mi viene in mente una bravissima cantautrice che si chiama Gaia Riva, veniva definita l’Anouk italiana. Aveva un contratto con la Sony, avevano anche usato un suo brano per uno spot pubblicitario per la Lancia Phedra, ha partecipato al Festivalbar, è una bravissima autrice, nessuno ha fatto un disco come ‘Frantic’, in Italia… non è stata sostenuta come merita e spero che ritrovi la strada, perché ha davvero una bella voce, grinta ed una grande energia rock. Oppure i The Docks, quattro ragazzi di Pianezza, vicino Torino, che negli anni Novanta proponevano in giro per le birrerie di Torino e provincia le loro canzoni, in aggiunta alle cover. Si sono autoprodotti quattro lavori, oggi suonano ancora per due ore e mezza nei locali ma gli chiedono di fare solo cover e per loro questa è comunque una piacevole passione, un modo per passare una serata assieme invece di stare chiusi in cantina come quando hanno iniziato. Molte band sono in questa situazione, poi si cresce, si mette su famiglia, si sostengono molte spese e se non si è supportati a dovere diventa difficile continuare a produrre dischi propri.
FR: Non vengono supportati gli artisti emergenti e si tende invece a dare risalto alle band uscite dai talent, come ad esempio i Måneskin. Sono ragazzi che non hanno una gavetta alle spalle, eppure riempiono i palazzetti e fanno sold out.
L’anno scorso c’è stata questa corsa ai biglietti, per sentire un concerto nel quale, alla fine, c’erano solo un paio di pezzi inediti e tutto il resto cover. Sembra più un’operazione di marketing.
LP: C’è una guerra in corso con le case discografiche, le major devono per forza puntare su degli elementi che sappiano attirare pubblico, visto che già i dischi si vendono poco. Ecco il perché del successo dell’hip hop negli ultimi anni. Fa presa su un pubblico che compra dischi, crea business, e le case discografiche sono aziende che devono fatturare. Poi questi magari scopri che ascoltano rock, ma l’hip hop e l’indie pop a quanto pare ripagano almeno l’investimento. Ma anche il rock lo fa, quando è ben supportato.
FR: Com’è nata l’idea di scrivere un libro dal titolo ‘IL ROCK È MORTO?’?
LP: Il titolo è arrivato successivamente. Il libro nacque in seguito alla mia collaborazione, iniziata nel 2004, con ‘Rockshock’, il cui direttore è Massimo Garolfalo, giornalista che aveva precedentemente lavorato per la sezione ‘musica e spettacoli’ dei quotidiani ‘Il Messaggero’ e ‘Il Mattino’ ed era responsabile di uno dei primi siti in Italia di musica in streaming, il portale ‘Caltanet’. Dopo queste esperienze aveva deciso di fondare una rivista online, ‘Rockshock’, occupandosi principalmente di recensioni di musica non mainstream. Io ero interessato all’ascolto di musica rock alternativa italiana, scoprendo band interessanti come i Livida, i Neodea, o band non ancora affermate all’epoca come il Teatro degli Orrori o i Ministri, ed era un po’ difficile riuscire a trovare gruppi nuovi. Colsi l’opportunità offertami da Massimo Garofalo per scrivere recensioni di dischi, conoscere gruppi e far loro qualche intervista. Mentre intervistavo i gruppi, specialmente quelli più giovani e meno conosciuti, mi resi conto dell’esistenza di un panorama desolante in cui tutte queste band dalla loro saletta prove non riuscivano ad arrivare sul palco, per tutti i motivi che abbiamo detto prima. Mettendo insieme queste interviste, arrivai alla conclusione che il rock, in Italia, non se la stesse passando molto bene. Invece di fare il solito libro scritto dal giornalista di turno che espone una sua opinione, ho preferito che a parlare di questa situazione fossero gli addetti ai lavori, principali testimoni del rock italiano.
FR: Una testimonianza diretta dei protagonisti di quella scena.
LP: Credo che sia la cosa più importante quella di far parlare la gente che vuole andare sul palco o che c’è andata. Fra cui, ad esempio, i Ritmo Tribale, che il loro palco l’hanno vissuto a fondo, o i Rats, i Quartiere Latino. Alcuni di questi stanno continuando il loro percorso, come abbiamo detto, altri hanno smesso, per varie ragioni.
FR: Hai citato i Rats: per assurdo il loro pezzo più conosciuto è ‘Fuori Tempo’, scritto da Ligabue.
LP: Per scrittura dei brani l’ultimo album dei Rats, ‘Siete in attesa di essere collegati con l’inferno desiderato’, è addirittura il migliore, e si sentono tantissimo le emozioni vissute da Wilko in un periodo molto duro della sua vita, le trasmette con cinismo, un pelo di cattiveria ma sempre con grande sentimento. Ne esce fuori un grande disco rock e di pezzi tosti della loro discografia ne hanno prodotti parecchi. ‘Fuoritempo’ è un gran pezzo, quando uscì era l’epoca in cui Ligabue si era affermato. Credo che i suoi primi album siano un qualcosa di fantastico per come si suonava rock in Italia. ‘Sopravvissuti e sopravviventi’, il suo terzo disco, che è un concept album, è quello che l’ha fatto soffrire, perché la critica non l’ha capito molto bene e nemmeno i fans. Da lì in poi lui ha fatto altre scelte, decise dopo poco di mollare i Clan Destino, che avevano, per me, uno dei migliori chitarristi in Italia, Max Cottafavi, e un batterista amante del progressive che ha poi suonato nei CSI, Gigi Cavalli Cocchi, anche lui intervistato nel libro. Successivamente Ligabue mise insieme ‘La Banda’, con Poggipollini ed altri musicisti e da lì in poi il suo sound non è più stato nudo e crudo come prima, ma si è sempre più smussato. C’è da dire che il rock, ad un certo punto, scema un po’ dappertutto. Io dico sempre che c’è la regola dei primi tre dischi: se i primi tre dischi sono una bomba, il gruppo ha sfondato. Poi segue quasi sempre un declino, è difficile fare un disco, dopo vent’anni di carriera, che sia ancora all’apice, allo stesso livello dei primi. Ci sono pochi gruppi che sono stati in grado di farlo. In Italia forse gli Afterhours hanno avuto un’evoluzione sempre in crescendo.
FR: Effettivamente è difficile pensare ad una band, con una carriera ventennale, che abbia sfornato solo dischi di successo.
LP: Se c’è un gruppo che è rimasto sempre all’apice, con almeno due o tre pezzi da classifica in ogni album, che oggi vengono ancora cantati a distanza di anni, quelli sono i Queen. Non perché sia uscito il film, ma perché veramente fino all’ultimo disco sono stati al top. ‘Innuendo’ è un capolavoro.
FR: Abbiamo parlato di queste band che escono dai talent e dell’assenza di un percorso pregresso, di una gavetta che passa per i locali con pochissimo pubblico. Negli anni ‘90 potevi veder suonare gli emergenti Negrita con un ingresso a sottoscrizione, pagando poche lire. La scena underground italiana era così.
LP: I Negrita uscirono con il loro primo album che era una vera bomba. Qualcuno dissentirà, ma i Negrita di allora erano un po’ i Greta Van Fleet di adesso. Non erano chiamati ‘i nuovi Led Zeppelin’, ma i Rolling Stones italiani. Se ne parlava in questi termini, ma con un’accezione positiva. Anche il loro secondo disco, che in realtà è un’EP, ‘Paradisi per illusi’, ha delle venature quasi progressive, molto rock, un po’ sperimentale, ed era stato gradito. Non era, tuttavia, la linea vincente per poter arrivare sui grandi palchi e con ‘Radio Zombie’ avevano già cambiato rotta.
FR: Poi hanno iniziato a rotolare verso Sud…
LP: Hanno comunque sempre fatto le loro canzoni con il cuore, li apprezzo molto per questo, penso a ‘Dannato Vivere’ figlio di una situazione dolorosa. Credo che sia giusto farsi contaminare, anche se io sono un amante del rock puro e i Negrita del 1994 sono quelli che preferisco. Adesso hanno un sound veramente diverso da allora.
FR: A breve vedremo proprio i Negrita sul palco di Sanremo, ma anche gli Zen Circus.
LP: Gli Zen Circus sono fra i pochi gruppi contemporanei ancora aperti alle collaborazioni fra artisti. Negli anni ‘90, fino all’inizio dei 2000, era una consuetudine, c’erano molte partecipazioni nei dischi, gli artisti si davano una mano tra di loro. Con le nuove leve questa cosa si è un po’ persa. Per quanto riguarda Sanremo, in passato parteciparono i Bluvertigo, gli Afterhours, i Marlene Kuntz, se ciò serve a farli conoscere al grande pubblico, non credo sia un male. Mi dispiace solo che spesso il meccanismo di Sanremo porti a presentare un nuovo brano riproposto su un Greatest Hits, senza l’uscita di un disco nuovo. A questo sono contrario, perché secondo me bisognerebbe sempre far uscire degli album inediti.
FR: Sì, anche perché Sanremo serviva un po’ anche a quello, a lanciare un disco che poi veniva effettivamente acquistato. Probabilmente il post Sanremo era il periodo dell’anno in cui l’industria discografica italiana vendeva di più.
LP: Tanti anni fa c’era anche ‘Sanremo Rock’, nella stessa serata del festival principale, nel quale si esibivano gruppi rock e dal quale uscirono, ad esempio, i Timoria. Si dava l’opportunità a questi gruppi di far conoscere la loro musica, che era diversa dalle tipiche canzoni Sanremesi, alla Toto Cutugno.
FR: Allora faranno ‘Sanremo Trap’, prossimamente… c’è da aspettarselo. Nei giorni scorsi, invece, c’è stato il ritorno in Rai di Morgan.
LP: Credo che al di là della simpatia o antipatia per l’artista, c’è da riconoscere che i Bluvertigo hanno segnato una pagina nella musica rock alternativa italiana, credo che questo sia condivisibile. Morgan è un grande conoscitore di musica, fa bene ad andare in televisione, offrendo la possibilità al pubblico di vedere la musica in un altro modo, il suo, che credo sia anche vicino al nostro, in quanto appassionati di rock.
FR: Questa passione, che condividiamo, per il rock, com’è nata in te? Qual è stato il primo disco o cassetta che ricordi di aver scelto personalmente?
LP: Il primo disco che chiesi ai miei genitori, vi spiazzerà, fu ‘La vita è adesso’ di Claudio Baglioni. Avevo 15 anni ed ero un ragazzo romantico, mi piacevano molto i suoi testi. Il primo impatto con il rock è arrivato, invece, con i Def Leppard, in particolare col disco ‘Hysteria’, e poco dopo con i Guns e gli Europe.
Pensando a questi ultimi, quello che mi stupisce tuttora è il grande successo che ebbero queste band che arrivavano dalla Scandinavia, come ad esempio, oltre agli Europe, gli Hardcore Superstar. Nonostante siano paesi freddi, credo che lì il calore del rock abbia sempre avuto una maggiore presa.
FR: Si associa spesso la Scandinavia al black metal, però effettivamente ci sono e ci sono state grandi rock band di tutti i generi, dal power metal degli Stratovarius, al glam degli Hanoi Rocks. Ascolti anche un po’ di metal?
LP: Abbastanza, sono in attesa, come tutti, del nuovo disco dei Tool. Amo molto anche i Metallica, anche se ho sempre preferito un genere alla Tesla o Skid Row.
FR: Come hai vissuto, poi, lo spostamento dell’epicentro musicale da Los Angeles, a Seattle, nei primi anni ‘90? Avevi capito che il rock degli anni ‘80 era stato seppellito dal grunge?
LP: Quelli furono anni straordinari. Io ho continuato comunque ad ascoltare l’hard rock, anche se in quel momento i gruppi che andavano per la maggiore stavano tirando i remi in barca, penso ai Guns che si erano sciolti, agli Skid Row, erano quelli che trainavano un po’ di più e che stavano pian piano sparendo. Anche se c’erano ancora i Bon Jovi che nel ‘95 avevano tirato fuori un bell’album, ‘These Days’, secondo me il loro capolavoro; poi sono diventati un gruppo molto più pop. Ho comunque abbracciato e apprezzato il grunge ed il post grunge, amo molto gli Smashing Pumpkins.
FR: Arrivando ai giorni nostri, cos’è cambiato nella musica rock?
LP: Innanzitutto l’approccio alle canzoni, non si sentono più gli assoli di chitarra.
FR: Questa cosa degli assoli ce l’ha detta anche Pino Scotto.
LP: Eh sì, ne parlavo anche con il direttore di Classic Rock Italia, Francesco Pascoletti, lui mi raccontò che da ragazzo era andato ad un concerto di Ivan Graziani. Dopo lo show, si fermò a parlare con lui e gli chiese come mai in radio passasse una parte così ridotta dell’assolo di un pezzo che invece dal vivo era durato un bel po’. Graziani, considerato uno dei migliori chitarristi italiani di allora, gli rispose che dipendeva dalle radio, che durante gli assoli la gente cambiava stazione, e così erano costretti a creare una versione del brano solo per le emittenti radiofoniche dove partiva l’assolo di sax che riprendeva la strofa.
FR: Eh sì, negli anni la capacità di apprezzare un assolo o il virtuosismo di un chitarrista si è un po’ persa.
LP: Però in questi giorni la gente sta impazzendo per l’assolo di ‘Bohemian Rhapsody’. Così come impazziscono per quello di ‘Comfortably Numb’ di Gilmour o quello di ‘Sweet Child O’ Mine’ di Slash.
FR: Perché sono produzioni vecchie, ormai sono dei classici. Il problema è sulla musica di oggi, non si riparte più da quei classici riproponendoli in chiave moderna, ponendo quindi nuovamente il virtuosismo e l’assolo al centro di un brano. Fermo restando che molte radio, purtroppo, tagliano spesso e volentieri anche gli assoli di quei brani che abbiamo citato.
LP: La radio deve puntare molto sull’intrattenimento, perché se si vuole ascoltare la musica che si ama, si può tranquillamente usare Spotify o mettere un disco. Trovo utili alla crescita della musica quei programmi radio che hanno uno scopo formativo/educativo, che spesso vanno in onda a tarda notte, dove lo speaker di turno spiega qualcosa su un certo genere o periodo musicale e propone contenuti di livello culturale e te li racconta con passione, come se fosse un fratello maggiore. Sappiamo benissimo, però, che le radio si reggono sulle pubblicità e le aziende che si pubblicizzano in radio si aspettano un determinato numero di ascoltatori sintonizzati, che difficilmente si ottiene con un programma discorsivo.
FR: È un corto circuito.
LP: Oltretutto il ruolo del dj non è facile, bisogna saper parlare in maniera tale da appassionare chi ti ascolta e non tutti ci riescono.
FR: Purtroppo no. Concludendo, la nostra personale riflessione su ciò che ci siamo detti è che il rock italiano, e non solo, si trovi sicuramente in un momento di difficoltà e che i responsabili siano molteplici. Se le cose miglioreranno non possiamo saperlo, ma purtroppo la tendenza è negativa e sarà difficile uscire dal vortice. Possiamo solo continuare ad ascoltare ciò che ci piace, abbracciando con fiducia le nuove proposte e tenendoci stretti i grandi classici.
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