Nell’epoca in cui l’elettronica guarda a nuovi orizzonti sonori digitali e dove gli strumenti di produzione diventano tecnologicamente sempre più avanzati, la fruizione moderna della musica, universalmente accessibile, passa inevitabilmente attraverso le ormai note piattaforme di streaming digitale. In questo scenario dinamico e flessibile, spicca la figura professionale del produttore musicale, il quale, da “dietro le quinte”, sfrutta le sue competenze e la sua visione oggettiva per progettare e confezionare un prodotto musicale il più vicino possibile allo stile e alle esigenze dell’artista.
La redazione di Fotografie ROCK ha avuto il piacere di affrontare la realtà della produzione musicale, e non solo, ponendo alcune domande a Filippo Buono in arte Phil Liar, uno dei massimi esponenti dello studio recording italiano, nonché proprietario del Monolith Studio Recordings di Vitulano (Benevento) e dell’etichetta discografica indipendente Karma Conspiracy Records.
FR – Ciao Phil, rompiamo il ghiaccio con un paio di domande di rito: come hai cominciato la tua carriera nel campo della produzione musicale? Ed ovviamente, come nasce il Monolith Studio Recordings?
PL – La mia carriera è cominciata quasi per caso, in un certo senso. Ero un musicista e muovevo i primi passi con la mia band, quando iniziai a cimentarmi nella registrazione dei primi demo casalinghi per riascoltare quello che stavamo componendo. Contemporaneamente, essendo attivista del C.S.A. Depistaggio, il centro sociale di Benevento, cominciai a curare l’audio dei concerti che si svolgevano lì, per diletto, e poco dopo capii che nutrivo un interesse forte nei confronti del mondo dell’audio, che non si limitava solo al suonare il mio strumento, e decisi quindi di intraprendere un corso di studi per formarmi professionalmente.
Nel periodo in cui studiavo cominciai a fare di tutto, producevo piccole demo per testare quanto mi veniva insegnato, continuavo a fare il fonico al Depistaggio e contemporaneamente cominciai a lavorare anche con service campani dove feci di tutto, dal facchino al backliner; però, finito di montare, potevo restare lì a guardare fonici molto più esperti lavorare ed apprendere da loro. Nel mondo dello studio ho affiancato alcuni grossi professionisti come assistente, alcuni erano miei insegnanti o ex insegnanti, passavo i cavi, facevo il caffè e contemporaneamente guardavo lavorare alcuni dei fonici italiani più importanti degli scorsi decenni.
Il Monolith è venuto dopo tutto questo percorso, inizialmente collaborai con un piccolo studio della mia zona, appoggiandomi lì per le mie prime produzioni, e nel mentre continuavo a fare il freelance. Alla fine decisi che era giunto il momento di mettermi in gioco per davvero, aprendo il mio studio. Avevo un’idea specifica di suono che volevo dare alle mie produzioni e per questo decisi che la soluzione migliore era avere uno studio tutto mio, dove ogni cosa, dal mixer, fino ad ogni outboard, microfono o plugin, è stata scelta per avere quel suono. Non mi interessa avere tutti i microfoni del mondo, mi interessa avere quelli che mi servono per arrivare all’idea di suono che cerco nei dischi che produco.
FR – Cosa serve, in generale e nello specifico, per diventare un produttore di musica?
PL – Credo soprattutto tanta passione, voglia di mettersi in gioco e l’umiltà del sapere che non si smette mai di imparare. Se parliamo della figura del produttore nello specifico, è importante ascoltare tanta roba, essere aperti mentalmente e non aver paura di azzardare. La mia idea è che quando consegno un disco, devo lasciare una traccia del mio lavoro, un aiuto alla band per costruirsi un sound che sia unico, riconoscibile e spesso diverso da quello che è di moda in quel momento, o dal diktat sonoro di un determinato genere.
FR – Che tipo di corsi e/studi sono necessari per apprendere le tecniche per creare, mixare e masterizzare musica e per sviluppare l’attitudine del produttore e del tecnico del suono?
PL – Questa è una domanda difficile, ed anche controversa. Di questi tempi si parla di creare una sorta di “albo professionale” e come stilarlo è una delle cose più complesse, anche per questo motivo. Diciamo che oggi avere una formazione accademica credo sia importante, perché è vero che anni fa, quasi tutti i grossi fonici e produttori si formavano sul campo, ma era un altro mondo, entravi in studio come “tea boy” o come facchino e guardavi lavorare i migliori al mondo, ed imparavi da loro, era un percorso efficace. Oggi la maggior parte pretende di formarsi sui canali YouTube fatti da gente che a sua volta ha nozioni dubbie, spesso errate, ma le trasmette ad altri in un vortice senza fine.
FR – Parlando di produttori di fama internazionale: chi è stato, diciamo, il tuo punto di riferimento? E perché proprio Steve Albini?
PL – Beh, quando mi approcciai al percorso di studi ero poco più che adolescente e come tanti adolescenti miei coetanei ero stato sconvolto dal fenomeno “Nirvana”, un album come “In Utero” mi aveva letteralmente cambiato come ascoltatore e come musicista. Ascoltavo tanto la scena di rock alternativo che arrivava da oltre oceano: amavo band come Sonic Youth, Pixies, Breeders, Neurosis e via dicendo… e tutti avevano una cosa in comune, quella firma sul disco. Quando anni ed anni dopo ho avuto il piacere di poter star seduto in una regia accanto a lui, guardarlo lavorare, capire il suo approccio, anche sfatare tanti miti che circolano su di lui, è stato semplicemente fantastico. Steve è letteralmente uno degli uomini migliori che mi sia capitato di incontrare, di un’umiltà che davvero non ti aspetteresti. Di giorno, eravamo in studio a registrare probabilmente la miglior band italiana, se parliamo di quel tipo di sonorità, e la sera eravamo a mangiare in una trattoria da due soldi parlando di produzioni, musica e poker.
Col tempo ho imparato ad apprezzare anche molti altri, anche diversi tra loro. Adoro ad esempio Andrew Scheps, mi piace quel mixare pop ed “in your face” di Chris Lord Alge, Rick Rubin è fantastico per quanto sia capace di essere fuori dagli schemi come produttore, Sylvia Massy lo è per il pensare out of the box quando registra. Come non citare gente tipo Andy Wallace o Michael Brauer? Poi ci sono quei mostri sacri, tipo Al Schmidt, che ti fa un disco intero senza usare un solo equalizzatore o compressore ed è tutto perfetto. La lista potrebbe essere lunghissima e in Italia abbiamo professionisti altrettanto enormi, secondo me.
FR – Secondo la tua esperienza, quali sono i migliori hardware e software da utilizzare per creare un proprio studio di produzione e registrazione?
PL – Non credo che esista un hardware o un software migliore di un altro, il punto è che bisognerebbe conoscere bene cosa fanno determinate macchine (analogiche o virtuali che siano) e sapere cosa scegliere per ottenere quello che si sta cercando. Leggo ancora quotidianamente di gente che si fa la guerra nell’eterna diatriba “analogico Vs digitale” e lo trovo davvero stupido. Per la prima volta possiamo utilizzare entrambe le tecnologie, prendendo i pregi di ognuna e mescolandole insieme: perché quindi continuare quest’assurda guerra? Nel mio studio ho una console analogica large format, è un mixer fuori produzione da oltre 30 anni, ma utilizzo anche tantissimi plugin, il mio registratore è comunque una sessione Pro Tools ed ho dell’outboard analogico selezionato. Il Monolith Recording Studio è appunto un ibrido, in cui faccio convivere un lato analogico ed uno digitale. Quello che fa davvero la differenza è l’approccio.
Sento spesso dire che i dischi 30 anni fa suonavano meglio perché erano fatti su nastro. La differenza reale è che è cambiato appunto l’approccio; prima le band suonavano dal vivo ed insieme in studio, sul nastro avevi un numero limitato di possibilità di riscriverlo e soprattutto, quando decidevi di re-incidere qualcosa, perdevi l’esecuzione precedente, perché appunto veniva sovraincisa. Questo faceva sì che prima di rientrare in sala e fare una nuova “take” si ascoltava il materiale e si rifaceva solo quando c’era qualcosa di clamoroso, o che comunque si era sicuri di poter fare meglio. Oggi in studio ti arrivano musicisti che se non fanno cento “takes” di voce della stessa strofa, non sono soddisfatti e la migliore poi sta sempre nelle prime tre. Ci sono musicisti che eseguono un assolo di chitarra 40 volte, finché non è perfetto in ogni dettaglio, magari facendo un collage tra le varie esecuzioni. Questo sta portando a dischi sempre più tecnicamente perfetti, ma senza un’anima, inumani, che non trasmettono nessuna emozione all’ascoltatore. Io, nelle mie produzioni, sto spingendo gli artisti con cui lavoro a concentrarsi soprattutto sulle emozioni che vogliono trasmettere; preferisco una traccia imperfetta, ma che mi trasmetta qualcosa, ad una batteria quantizzata in griglia colpo per colpo.
Questo dovrebbe essere il punto su cui focalizzarsi, non sarà un 1073, un u47 o un Distressor a rendere bella la vostra produzione, quelli vi possono aiutare a rendere qualcosa che è bello ancora più bello, ma sono l’approccio, la tecnica e l’orecchio a fare la differenza maggiore.
FR – Che consigli ti senti di dare a chi ha intenzione di approcciarsi a questo mestiere e intraprendere seriamente la carriera del produttore musicale?
PL – Essere pronti ad una vita di stenti [ride]. Scherzi a parte, essere coscienti che oggi è un mondo non semplice, che sta mutando continuamente, dove o si ha davvero qualcosa da dire, o si rischia di rimanere impantanati in una melma fangosa di piccoli studi che lavorano solo con i propri amici. Quindi studiate e dedicatevi a questo lavoro con anima e corpo.
FR – Rimanendo su questo messaggio: secondo te, quali sono, invece, gli errori da evitare nel campo della produzione? Quali suggerimenti tecnici ti senti di dare ai musicisti che vogliono realizzare un progetto discografico?
PL – Non seguire dei semplici tutorial su YouTube, dando tutto per semplice e scontato, non sentirsi realizzati solo perché si sono portati a termine due demo del nostro progetto musicale o di quello del nostro vicino di casa, non dare qualcosa per scontato solo perché con noi ha funzionato… il web è una lama affilata ed è a doppio taglio.
FR – Sappiamo che sei anche proprietario dell’etichetta discografica indipendente Karma Conspiracy Records: come riesci ad abbinare e combinare il doppio ruolo di tecnico del suono e produttore?
PL – Karma Conspiracy Records è nata più che altro per mettermi ancora una volta in gioco. Avevo avuto contatti ed esperienze con la discografia, avendo consegnato diversi miei lavori a varie etichette e collaborando in modo più o meno stabile con alcune di loro. L’esperimento fu il lancio del secondo disco della mia band ed andò molto bene. Cerco di tenere le due figure professionali distinte tra loro: con l’etichetta faccio uscire tanta roba su cui non ho messo mano come tecnico del suono, se mi piace, ci investo. Di solito non faccio mai più di 4 o 5 uscite all’anno, la mia attività principale resta il Monolith, ma amo far le cose per bene, quindi seguo personalmente tutto il processo di stampa, pubblicazione e promozione dei dischi con KCR.
FR – Hai delle preferenze musicali nella doppia veste di label owner e produttore? Se sì, quali?
PL – Beh, quando decido di far uscire un disco per Karma Conspiracy Records sono abbastanza selettivo, ho cercato di dare alla label una chiara linea editoriale, quindi lavoro prettamente con rock, psichedelia ed affini; se qualcosa mi piace e mi trasmette buone sensazioni, ci investo e la pubblico, altrimenti no.
Nel lavoro come produttore artistico e tecnico del suono ho molti meno paletti, lavoro su qualsiasi cosa, l’importante è che la band o l’artista sposi il mio approccio. Negli ultimi anni ho lavorato principalmente sul rock, ma ho variato facendo un disco di musica folk fino ad un disco metalcore, passando per l’elettronica ed il pop. Se mi sento in sintonia con l’artista, se sento che posso dare qualcosa alla sua produzione, accetto il lavoro. Non ho mai lavorato con la trap, ma non per questioni stilistiche, semplicemente ad un artista di quel filone non credo potrei dare qualcosa in più, ci sono colleghi sicuramente più bravi nel settore e credo sia giusto così.
FR – Cosa puoi dirci della musica e della produzione ai tempi del covid? Come ti sei organizzato in questi mesi di lockdown? Ed inoltre, qual è il tuo punto di vista sul tema controverso dell’home recording?
PL – Beh, è stato un periodo strano che ha colpito un po’ tutti. Le prime settimane ho continuato tranquillamente, avevo delle sessioni da mixare, quindi ho smaltito quelle, lavorando a distanza con gli artisti; poi, ovviamente, con la mobilità bloccata e le band impossibilitate a fare le prove, si è fermato tutto. Ne ho approfittato per fare un po’ di manutenzione allo studio, abbiamo rifatto l’intero cablaggio del mixer e poi ne ho approfittato per rimettere in discussione tante scelte che ormai facevo quasi automaticamente quando mixavo. Ho fatto esperimenti, rimettendo in discussione tutto il mio workflow, e devo dire che ne ho tratto degli spunti interessanti. Il settore della musica è stato distrutto dal lockdown. Già era martoriato, ora sarà davvero tosta e quello che sta accadendo lo dimostra, con un Governo che sta per rilasciare un “Decreto Rilancio” in cui si sono completamente dimenticati della musica, come se non fossimo lavoratori come gli altri che vivono di questo e che producono il 16% del PIL nazionale. Questa cosa mi ha dimostrato quanto la politica viva in un mondo che è distante anni luce da quello del cittadino, non avendo proprio la più pallida idea di cosa sia la vita normale, di quali siano bisogni ed esigenze di un cittadino medio, e questo rammarica non poco, è semplicemente un continuo slogan, da una parte e dall’altra, sulla pelle dei lavoratori.
La questione degli Home Studio per me non è affatto controversa, io sono un forte sostenitore di queste strutture, semplicemente andrebbero viste per quello che sono. Per quanto mi riguarda, oggi, qualsiasi musicista o aspirante tale dovrebbe avere nozioni di home recording, perché è l’unico modo per mantenere quel processo, chiamato produzione artistica, che prima si faceva direttamente in uno studio professionale e che oggi è impensabile fare ancora durante la registrazione di un disco, considerando come si sono ristretti i budget che girano intorno al settore della musica. Mi spiego meglio. Anni addietro non era raro per un artista rimanere in studio 2, 3, o anche 6 mesi. Una produzione poteva costare oltre un centinaio di migliaia di dollari, ma erano cifre che si recuperavano velocemente con le vendite dei dischi: oggi è chiaramente impensabile. Come fare allora per salvaguardare quel processo senza andare fuori budget? Usando gli home studio, appunto. È un modus operandi che da anni è diventato il mio standard per fare le produzioni full. Quando decido di lavorare con una band, dopo le prime chiacchierate conoscitive, chiedo una pre-produzione del disco, che si possono benissimo registrare a casa, in sala prove, nello studio di un amico e via dicendo. Su quel materiale poi lavoriamo a distanza, capiamo insieme la direzione del disco, come strutturare il sound, sistemiamo gli arrangiamenti dove necessario e curiamo tutti i dettagli del caso. Alla fine del processo ci ritroviamo una sorta di “disco in brutta” ed in quel momento fissiamo la produzione vera e propria, la band viene in studio e circa 20 giorni dopo è in uno studio di mastering. Questo permette di fare ancora dischi dove tutto viene curato alla perfezione, mantenendo dei budget che sono accessibili per quella che è l’industria musicale oggi.
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