RosGos: intervista a Maurizio Vaiani

Il 14 Aprile è uscito Lost in the Desert, il nuovo disco di RosGos, al secolo Maurizio Vaiani, con il quale abbiamo fatto una piacevole chiacchierata.

FR – Ciao Maurizio, come stai?

MV – Bene dai, stiamo cercando di sopravvivere ad una situazione abbastanza surreale. Io sono di Crema, quindi potete immaginare…
Per tutto il mese di Marzo abbiamo convissuto con le sirene delle delle ambulanze; nei momenti in cui non le sentivamo, ci siamo trovati a riscoprire un suono angosciante, che è il silenzio. Un qualcosa che per chi vive in città può essere inusuale e pesante. Comunque ora le cose vanno meglio, a parte lo smart working, da coniugare alle lezioni scolastiche della mia bambina di sette anni. Di sicuro riesco a seguirla bene nell’ora di musica!

FR – Qualcosina di musica diciamo che la mastichi.

MV – Ma sì, dai, ho fatto anche il militare, suonando tutto l’anno nella banda.

FR – Quanti anni hai Maurizio?

MV – Troppi, 52. Fisicamente me li sento tutti, ma mentalmente no. Sono uno a cui piace essere attivo, lo sono sempre stato. Qui nella mia zona organizzavo eventi musicali e creavo associazioni che poi davano vita a delle salette prove, nelle quali si formavano nuove band. Una cosa che negli anni si è, purtroppo, un po’ persa. Per carità, bisogna sempre guardare avanti, però mi manca quello scambio di idee che si veniva a creare di persona, durante le pause tra una prova e l’altra, nelle quali conoscevi i membri di altri gruppi e ti ci confrontavi. Adesso sì, ci sono scambi via telefono o via web, ma non è la stessa cosa.

FR – Non sarà mai la stessa cosa e non per fare i nostalgici o i bigotti, ma certe esperienze non sono paragonabili.

MV – Sì, certo, suonare insieme anche fisicamente e non come adesso, che gran parte della musica viene fatta a computer, faceva sì che si creassero delle scene musicali locali, anche piccole, nelle quali c’era un forte spirito di aggregazione. Se qualcuno che conoscevo suonava nei dintorni, lo andavo a sentire anche solo per esserci, per fare due chiacchiere con i musicisti. Al giorno d’oggi purtroppo anche i locali che propongono musica dal vivo scarseggiano.

FR – Era un po’ anche lo spirito dei centri sociali, nei quali si andava per stare insieme e per ascoltare musica, a prescindere da chi ci fosse a farla.

MV – Il collante era la musica, ma prima ancora c’era la voglia di stare insieme. Tutto questo qui da noi è scomparso, resistono alcune piccole realtà nelle quali suoniamo noi ‘anziani’ e dove il pubblico è composto sempre dai soliti di una volta, non ci sono i ventenni.

FR – Dagli anni 2000 in poi non c’è stato ricambio generazionale tra i fruitori.

MV – I giovani di oggi che conosco io non escono proprio, al massimo si ritrovano a casa di qualcuno. Persino i pub tendono a chiudere e scarseggiano anche le discoteche.

FR – Può darsi che in seguito a questo periodo di restrizioni e limitazioni numeriche, ci sarà un ritorno alle piccole realtà, che potrebbero rifiorire.

MV – Speriamo che questo lockdown possa riportare in auge qualcosa di positivo. Ad esempio, io adoravo d’estate andare nei cinema all’aperto, che ormai sono spariti. Erano favolosi, a parte le zanzare che ti si mangiavano vivo.

FR – Parliamo un po’ di te. Come nasce lo pseudonimo RosGos?

MV – Il ‘rosgos’ nel dialetto cremasco è il pettirosso. Si pronuncia con le ‘o’ chiuse. In pratica è un ricordo di mio padre, che negli ultimi anni di vita soffriva di Alzheimer. Una volta ero andato a trovarlo, in una giornata in cui era in crisi e non aveva parlato per tutto il pomeriggio. C’era un pettirosso vicino a noi e lui voltandosi verso di me mi disse: “Guarda, rosgos“. È una delle ultime immagini che ho di lui.

FR – Un bellissimo omaggio.

MV – Sì, per me ha un significato importante.

FR – Com’è nata la tua passione per la musica? Ti è stata trasmessa dalla tua famiglia?

MV – No, mi sono avvicinato alla musica da autodidatta, i miei genitori facevano una vita dura, vivevamo in una cascina e loro non avevano proprio il tempo di ascoltare musica a fine giornata. Il tutto è nato alle scuole elementari. Organizzavano una giornata nella quale un musicista passava per le classi, mostrando una serie di strumenti. Mi colpì il clarinetto e cominciai a suonarlo, finendo nella banda di paese. Praticamente non ascoltavo altra musica al di fuori di quella classica da banda. Il problema nacque quando fui illuminato dal punk.

FR – In tanti sono passati dal clarinetto al punk, è quasi un passaggio naturale!

MV – [ride] Vivevo suonando la musica classica e ascoltando i Ramones.

FR – E quindi hai pensato “adesso che ci faccio col clarinetto?“.

MV – Esatto, il fatto di suonare il clarinetto non rispecchiava più i miei gusti. Suonavo il Nabucco di Verdi e non mi trasmetteva niente. Allora ho abbandonato lo strumento, verso i 17 anni, perché volevo gridare la mia rabbia punk. Sembrava tutto finito, finché non partii per il militare. Il primo giorno chiesero subito se qualcuno sapesse suonare un qualche strumento e a quel punto mi pentii di aver buttato via il clarinetto, due anni prima. Mi feci coraggio e ammisi di saper suonare; tornai a casa e me ne feci prestare uno.

FR – Quindi alla fine ti è tornato comodo.

MV – Sì, perché per un anno di militare ho solo suonato. Comunque dal punk, poi, sono passato anche a roba più pesante, tipo gli Exploited, oppure a cose totalmente differenti tipo i primi U2. Ho amato alla follia anche i primi album dei Dire Straits, o i The Cult… diciamo che ho sempre spaziato tra più generi. Anche oggi amo molto scoprire cose nuove. Sui social leggo spesso di miei coetanei che continuano ad ascoltare i Byrds, o Bob Dylan, che sono stati sicuramente importanti, ma ho come la sensazione che alcune persone non si spostino da lì.

FR – Ci sono anche parecchi giovani poco inclini alle novità, che continuano ad ascoltare sempre i soliti quattro gruppi.

MV – Ci vuole tantissima passione, che è ciò che ti porta a voler scoprire sempre cose nuove. A volte mi capita di riascoltare un disco che adoravo 30 anni fa. Lo metto su e mi domando come potesse piacermi così tanto. Ovviamente la risposta è che è passato del tempo e sono cambiate tante cose. Sono diverso io, ma sono cambiate anche le sonorità. Per un musicista, alcuni suoni di un tempo oggi risultano davvero datati, per questo sono sempre alla ricerca di novità. Sono diventato anche più selettivo, quindi magari l’80% delle cose che scopro non mi piace, però quando trovo quel 20% che mi aggrada, sono molto felice.

FR – Com’è proseguito il tuo percorso artistico successivamente all’esperienza con la banda militare?

MV – Ho suonato in tanti piccoli gruppi del territorio, tra cui in una cover band, una delle prime, quando ancora non erano di moda. Suonavamo pezzi dei Ramones. Il gruppo che mi ha dato più soddisfazioni sono stati però i Jenny’s Joke, con i quali ho pubblicato tre album, di cui il primo con Davide Perucchini, il fonico dei Verdena. Lui era entusiasta di quel progetto. I Jenny’s Joke, tra gli addetti ai lavori in quel periodo, erano abbastanza conosciuti. Tra il 2004 e il 2006 abbiamo fatto una cinquantina di live all’anno. Per un gruppo che suona solo musica propria e che non ha un’agenzia di management, 50 date sono tantissime. È stato bello finché è durato, poi le solite vicissitudini della vita ti separano, almeno musicalmente, dato che siamo rimasti amici e ci frequentiamo tutt’ora.

FR – Dopo i Jenny’s Joke ti sei preso un periodo di pausa?

MV – Sì, anch’io ho avuto i miei impegni familiari. Ma quando hai la passione musicale dentro di te, è difficile lasciarla in un angolo. Nei rarissimi momenti liberi ho continuato a strimpellare la chitarra e ogni tanto qualche idea veniva fuori, ma si perdeva per strada, fin quando non ho scoperto delle app che ti consentono di registrare le melodie e i giri di chitarra. Per un paio d’anni sono andato avanti così, a registrarmi con lo smartphone, finché il mio amico Toria, artista che vi consiglio di ascoltare, mi chiese di passargli i miei brani per produrli. Abbiamo lavorato benissimo insieme e sono molto soddisfatto di come è venuto fuori l’album. A questi livelli il più grande successo è essere appagati dal risultato finale.

FR – E il risultato finale è Lost in the Desert. Nel 2018 avevi però già pubblicato un disco, Canzoni Nella Notte.

MV – Sì, quel disco nasce, come dice anche il titolo, come frutto di un periodo di 3/4 anni non proprio semplice, nel quale dormivo poco e avevo bisogno di buttare fuori quello che provavo. In quegli anni ho scritto anche un libro, ma non perché venisse pubblicato. Semplicemente per l’esigenza che avevo di esternare in qualche modo la mia sofferenza.
In Canzoni nella Notte mi sono cimentato per la prima volta con i testi in italiano, proprio perché avevo bisogno di dire delle cose.

FR – Con Lost in the Desert sei tornato alla lingua inglese. Come mai?

MV – Scrivere i testi non è mai facile e a volte mi pongo l’interrogativo su quanto siano importanti nell’economia di una canzone. Sono dell’opinione che alcune liriche siano bellissime, ma in una canzone di successo, quanto contano veramente le parole?

FR – Bisognerebbe analizzare quali sono le canzoni di successo. Scindere tra La Cura di Battiato e il tormentone radiofonico. A volte alcuni testi portano al successo una canzone proprio perché sono brutti e per questo la gente se li ricorda.

MV – In quel caso sono geniali. Io, nel mio piccolo, in questo disco ho voluto privilegiare la musica, a discapito dei testi, anche perché da ascoltatore sono uno che presta più attenzione ai suoni e alle melodie.

FR – Un altro aspetto da non sottovalutare, in un disco, è la produzione.

MV – Quella, secondo me, è fondamentale. Insieme all’hype, ovvero all’aspettativa, che al giorno d’oggi è alimentata da una pianificazione a tavolino di ciò che è destinato a diventare un grande successo commerciale. Una tendenza, questa, che dagli anni 2000 in poi è cresciuta sempre di più. La musica pop di oggi mi sembra estremamente artificiale, troppo studiata. L’aspetto economico sta schiacciando la naturalezza degli artisti.

FR – Lo sviluppo della tecnologia ha sicuramente contribuito a questa artificiosità della musica, parlando in generale, in campo internazionale. Per quanto riguarda il nostro Paese, invece, come può ripartire l’industria musicale italiana in seguito al lockdown? Parliamo di un intero settore che è stato dimenticato dal nostro Governo.

MV – Purtroppo una risposta non ce l’ho, però è indubbio che gli artisti e tutti quelli che lavorano intorno agli eventi e al settore musicale siano stati un po’ dimenticati. Soluzioni non ne vedo. Temo che purtroppo molti locali chiuderanno e che anche molti artisti non sopravviveranno a questa crisi. Ad esempio, c’è un gruppo che amo moltissimo, che sono i Woven Hand. Qualche giorno fa, su Facebook, hanno fatto un post nel quale chiedevano delle offerte per sostenere la band. E chissà quanti altri artisti sono in questa situazione. Questa cosa mi ha disturbato parecchio, mi ha messo molta tristezza. Quando un artista ti trasmette delle emozioni forti e lo segui da parecchio tempo, alla fine diventa quasi come un fratello. Il pensiero che un domani lui non possa più fare musica mi crea dispiacere, perché mi mancheranno quelle emozioni.
La perdita in questo caso sarà quindi sia economica, che artistica. Il bicchiere mezzo pieno, in tutta questa storia, va ricercato nel discorso che facevamo all’inizio, ovvero nell’occasione che si presenterà di inventarsi cose nuove volgendo uno sguardo al passato, quando di soldi non ce n’erano, ed erano la passione ed il sostegno reciproco a smuovere le persone.

FR – Si sta perdendo un po’ la passione per la musica o per le arti in generale?

MV – Quando manca il pane in tavola, il problema principale da risolvere è ovviamente quello e tutto ciò che fa parte del corollario della nostra vita viene messo in secondo piano. La cultura, purtroppo, non è vitale quanto il pane e quindi la gente e soprattutto la politica, se ne dimenticano. Questo è rischioso, perché senza cultura si diventa un popolo di barbari.

FR – Non si può vivere solo per lavorare. L’arte e l’intrattenimento sono fondamentali. A tal proposito, avevi qualche concerto in programma per quest’anno, che è stato rimandato al 2021?

MV – Non sono un grande fruitore di concerti; come dicevo prima, frequentavo molto le piccole realtà locali e saltuariamente i grandi eventi. Adesso ho in mano questo bel biglietto del concerto di Nick Cave, che è stato rimandato al 20 Maggio del 2021.

FR – Speriamo che la macchina dei concerti possa ripartire al più presto, in modo da poter assistere, magari, anche ad un tuo live. Grazie mille Maurizio.

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