Accept: recensione di Humanoid

Accept

Humanoid

Napalm Records

26 aprile 2024

genere: power metal, heavy metal, hard rock

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Recensione a cura di Marco Calvarese

Dopo l’inverno britannico, la primavera tedesca. La Germania sta rispondendo colpo su colpo all’offensiva scatenata dalle milizie metal inglesi ed è bellissimo veder scendere in battaglia i panzer Accept, quelli che ho sempre considerato i Judas Priest teutonici.

Lo confesso: ho esposto orgogliosamente la Union Jack qualche mese fa, facendo una scelta di campo corroborata dall’ascolto di alcuni singoli di Humanoid, diciassettesimo LP dei superstiti di Udo, che non mi avevano del tutto convinto. Al punto da aver relegato il disco in fondo alla mia lista, forse saturo di power metal e ansioso di tornare a distorsioni più granitiche.
E invece mi sono ricreduto fin dal primo ascolto completo.

Senza assumere i connotati del concept, Humanoid affronta prevalentemente una tematica certo un po’ stantia, come il sopravvento della macchina sull’uomo, da sempre cara agli Accept, peraltro dotandosi di un makeup piuttosto indigesto, tutto AI, tra cover e video. Però, se grattiamo sotto la crosta e arriviamo alla musica, che poi è ciò che più ci interessa, Humanoid è un bel disco, suona Accept al 100%, vintage al punto giusto, perfettamente prodotto.

Il sound è reso più corposo dalla scelta, non inedita ma recente, di implementare il volume di fuoco con una terza chitarra, il prodotto è vario e mai noioso grazie alle acrobazie vocali dell’ottimo Mark Tornillo e allo stile degli immarcescibili Hoffman e Lulis alle sei corde: i richiami dark, orientali e classicheggianti hanno fatto la fortuna della band teutonica e ancora colgono nel segno, fin dalla opening track Diving Into Sin, dal riffing sontuoso, passando per la title track, classico episodio in cui riconosci di chi di tratta dalla prima nota. Per poi deviare sul più classico dei power vintage, con Frankenstein, o sul mid tempo che non può non rimandare agli AC/DC di Man up, anche grazie al semi-scream di Mark, ma che poi si sviluppa su pentagramma e cori tradizionalmente Accept.

Senza grossi sussulti, l’album scivola via piacevolmente e, con The Reckoning, forse regala il meglio dal punto di vista compositivo senza discostarsi minimamente dal cliché. Però cavoli che main riff, e quant’è bella!

Dobbiamo attendere Nobody Gets Out Alive per uscire un po’ dagli schemi, ma solo per fare un ulteriore salto temporale all’indietro: un trascinante hard rock radiofonico con inclinazioni glam nel riffing, a gusto mio nostalgico e irresistibile, degno apripista per la ballad d’ordinanza: Raveges Of Time suona a metà fra Guns e Scorpions e punta i riflettori sull’ottimo Mark, a suo agio anche nelle parti clean.

Ogni sapore risulta, poi, esaltato dalla forma smagliante di Hoffmann, capace di assoli perfettamente calati nelle armonie dei brani e capaci di valorizzarle, piuttosto che spezzarle come purtroppo si sente da parte di troppe band di nuova generazione.

Ma non temete: gli Accept non si ingentiliscono nel finale dell’album, anzi è tempo di anthem con Unbreakable, degna risposta a Saxon e Judas Priest, che, a mio gusto, i nostri sono capaci anche di superare per qualità negli arrangiamenti e nell’assolo di ispirazione classica, in un continuo richiamo alla storia della band che, ne sono certo, farà luccicare le pupille agli ultracinquantenni.

Ritornelli che restano in testa, giri sulle sei corde da leccarsi i baffi e nessun vero e proprio filler finora. Coraggio, old boys, grazie a Metal Heart, ormai quasi 40 anni fa, ho abbracciato la fede del metallo e non mi dovete deludere proprio adesso!
Invece Mind Games inizia un po’ così, molto retró e apparentemente banale, ma poi si riscatta con il solito lavoro di asce, spettacolare e capace di donare un tocco di classe e spunti catchy ad ogni brano. Cosa di cui Straight Up Jack non ha bisogno: sfido chiunque, ascoltando testi, voce e riff, a non pensare a Angus e Brian nelle loro prove più coinvolgenti, quelle che si impossessano del tuo corpo e non riesci a star fermo nemmeno volendolo.

Si ok, tutto bello, ben fatto, abbastanza ispirato, un ottimo lavoro di chi il mestiere lo conosce a menadito e sa trasformare non dico in oro, ma almeno in argento ciò che tocca. Però manca qualcosa, per considerarlo un potenziale top album. Manca la hit, quella roba che quando finisci di ascoltarla la rimandi da capo perché non ci hai capito niente e le emozioni sgorgano dagli occhi come acqua salata. Quell’episodio che lega passato e presente facendoti esplodere tutto l’Accept immagazzinato in una vita da metalhead.

Manca, finché non ascoltiamo la closing track, Southside Of Hell: un wow dalla prima nota e ho già capito che questa entra nella mia playlist dell’anno con tutti e due i piedi. Un power esplosivo, arrangiato in modo perfetto, in cui tutti sembrano voler dare il meglio di sé quasi a chiudere col botto. E poi quell’assolo degno dei Maiden più epici, mamma mia… È già la terza volta di fila che lo ascolto mentre scrivo.

Nessuno si strapperà i capelli (o la barba, in mancanza di quelli) per Humanoid, in pochi torneranno ad ascoltarlo a più riprese dopo la sbornia dell’acquisto, ma sono più che certo che il comeback del neo settantenne Tornillo e della sua gang farà felici i fan di ogni generazione. Per me, che ho ricevuto il battesimo dagli Accept, rappresenta la chiusura del cerchio e di sicuro non finirà a raccogliere la polvere in fondo alla mia collezione. Respect!

facebook/accept

Tracklist:

1. Diving into Sin 2. Humanoid 3. Frankenstein 4. Man Up 5. The Reckoning 6. Nobody Gets Out Alive 7. Ravages Of Time 8. Unbreakable 9. Mind Games 10. Straight Up Jack 11. Southside Of Hell

Lineup:

Mark Tornillo – voce
Wolf Hoffmann – chitarra solista
Uwe Lulis – chitarra
Philip Shouse – chitarra
Martin Motnik – basso
Christopher Williams – batteria

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