Il Teatro Degli Orrori: recensione di A Sangue Freddo

Il Teatro Degli Orrori

A Sangue Freddo

La Tempesta Dischi

30 ottobre 2009

genere: noise rock, alt-rock, groove rock, post-rock, cantautorato italiano, canzone d’autore, slide heavy blues, math rock, psichedelia elettronica

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

Chissà se oggigiorno, nell’era del digitale e di internet come strumento di promozione della musica, ha ancora senso parlare di indie-rock; in particolare di quel prefisso che già nella controcultura “alternative” degli anni ’90 si era inflazionato al punto di raggiungere la dimensione mainstream e disperdere tutto il suo sapore, tutto il suo significato deontologico e primordiale.

Sappiamo anche che ogni musica ha il suo tempo e che certe esigenze di mercato, così come gli appetiti dei consumatori, cambiano umore repentinamente. E soprattutto che niente dura per sempre. “Per sempre cosa? Guardati intorno, e dimmi se c’è qualcosa che possa mai durare per sempre, Tutto quanto è destinato a scomparire […] Non si vive ogni giorno, non si può morire sempre”.

Nell’ottobre del 2009, a distanza di due anni dal convincente debutto con Dell’Impero Delle Tenebre, la band Il Teatro Degli Orrori – progetto che si è ufficialmente sciolto nel 2020 – pubblicava il suo secondo album intitolato A Sangue Freddo, edito per l’etichetta indipendente La Tempesta Dischi.

Un comeback discografico dal sound pieno, dinamico, poliedrico, orecchiabile e intriso di pathos e spunti di riflessione, attraverso il quale Pierpaolo Capovilla (voce) Gionata Mirai (chitarra), Francesco “Franz” Valente (batteria) e Giulio “Ragno” Favero (basso) riuscirono a integrare lo spirito “carrarmato-rock” del disco d’esordio con l’inserimento di elementi mitigatori quali pianoforte, archi, trombe e basi elettroniche (come quelle del duo Bloody Beetroots in Direzioni Diverse), espandendo la propria maturità artistica e conferendo maggior enfasi a muse ispiratrici come spleen, disperazione e turbamenti emotivi.

Se nella metrica strumentale i dodici episodi di A Sangue Freddo attingevano a piene mani dal riverbero energico e abrasivo di quel collettivismo alt-rock tricolore degli anni ’90 (di cui già facevano parte gli One Dimensional Man di Capovilla, Valente e Favero) e da certo noise-blues di fattura statunitense, sotto l’aspetto testuale (alla luce di un arsenale lirico ricercato, alternando linguaggio dotto e popolare) il carismatico frontman Pierpaolo Capovilla (con quella erre moscia corrosiva e quel timbro declamatorio così tagliente, mefistofelico, delirante, impastato, accorato e sofferto, a metà tra il Sergente Hartman ed Enzo Jannacci) affondava il suo furente mare magnum verbale al vetriolo nella caducità dei rapporti interpersonali e nei lati oscuri dei nostri comportamenti, nei nostri Mr. Hyde, scagliandosi – quando con la scure dell’indignazione e del sarcasmo, quando con disarmante dolcezza – contro la malinconia, gli ipocriti, il malaugurio, la mediocrità, la corruzione, il marketing delle religioni, le morti in nome di una qualsiasi divinità immaginaria, l’arroganza degli ignoranti, l’impunità dei potenti, le patologiche derive del capitalismo tecnologico e tutte quelle menzogne che corrodono l’anima. Rischiando seriamente di farsi scoppiare il fegato.

A Sangue Freddo, nel suo modus evocativo, metaforico, malinconico, agrodolce, viscerale, adrenalinico e sentenziale, ha tracciato, dunque, un fronte analitico sulla contemporaneità e le sue trasformazioni, sulle dinamiche orwelliane di “una comunità operosa, opulenta e vanitosa”, di una società moderna sempre più apatica, incoerente, vigliacca, individualista, sorda e indifferente alle ingiustizie (“è nell’indifferenza che un uomo, un uomo vero muore davvero”), al dolore altrui, alle esigenze della collettività: “che mi sembra sempre meno interessante, questo continuo distogliere altrove lo sguardo e poi vivere per non morire”.

Così, Il Teatro Degli Orrori ha elaborato e prodotto una critica (e autocritica) nei confronti della natura stessa degli esseri umani: vittime e carnefici del proprio destino, schiavi di inutili conflitti quotidiani e rinchiusi in pochi metri quadri rivestiti di emarginazione e angoscia. Storie d’amore, fede e solitudine. Vicissitudini di un “terzo mondo” abitato da individui convertiti in numeri, in merce di scambio per algoritmi e pubblicità; popolazioni civilizzate che tutt’oggi, pur di sopravvivere in questo pianeta degli orrori, fingono di vivere in democrazia. D’altronde, la storia ci insegna che il corpo dell’uomo è sempre stato un’eccellente cavia per qualsiasi genere di tortura e apocalisse.

Eppure, nonostante la foschia dei ricordi, l’abisso tra aspettative e realtà, e il peso dei rimpianti (“sarebbe stato bello invecchiare insieme, la vita ci spinge verso direzioni diverse”), c’era ancora qualcosa o qualcuno che per cui valeva la pena attendere, che fosse un amore, o un orizzonte differente (La Vita È Breve).

“Come son belle le illusioni, ed i pensieri tristi, e le canzoni degli anni settanta, e quella voglia di andare via, ed il desiderio di restare, ed il nobile orizzonte del mare Ionio, che se ne va via verso l’Africa, ogni santo giorno”.

Con i suoi meccanismi narrativi dal taglio intimo e inquieto, A Sangue Freddo si è ritagliato un ruolo fondamentale nella produzione musicale degli anni duemila: un’opera eclettica in grado di coniugare disillusione, canzone d’autore italiana (Gaber, Fossati), struggente teatralità, citazioni dirette (dal Celentano de Il Ragazzo della Via Gluck, “questa è la storia di uno di noi”, alla rivisitazione della preghiera cristiana Padre Nostro, passando per la rilettura della poesia All’amato se stesso dedica queste righe l’autore del poeta russo Vladimir Majakovskij) e una feroce protesta politica raccolta proprio nella trainante titletrack, rievocando le vicende del poeta e intellettuale nigeriano Ken Saro-Wiwa, “un eroe dei nostri tempi”, che lottò contro lo sfruttamento del territorio del Delta del Niger da parte delle multinazionali del petrolio, e che per questo fu impiccato dal suo governo, “davanti a tutti, a sangue freddo”.

All’interno di uno spietato saliscendi psicanalitico “quiet and loud”, sostenuto da riff anthemici e dinamitardi e da una sezione ritmica marziale, pirotecnica e incendiaria, Il Teatro Degli Orrori è riuscito a conciliare le dissonanti luccicanze del post-rock e del noise rock a slide heavy blues e stratificazioni dense e solfuree ascrivibili alla psichedelia elettronica dei Subsonica, sfumando ogni ostilità nel ticchettio di un orologio (Die Zeit), quasi a voler evidenziare il tempo che scorre inesorabilmente verso ciò che è ineluttabile.

“Mentre guardo le tue fotografie, penso di non riconoscerti, ma se ti osservo attentamente, io vedo nella tua persona, almeno una piccola, forse una grande, parte di me”.

Sono trascorsi quattordici anni dall’uscita di A Sangue Freddo, e le sue tematiche non sono invecchiate affatto, ma risultano attuali, oggi come allora. Nel mentre, abbiamo seguitato a rincorrere lavori non gratificanti, a fare i conti con le nostre debolezze e a farci del male inseguendo desideri e tentazioni, arrendendoci alle circostanze e sacrificando etica ed esperienza sull’altare del conformismo e della vanità mediatica. Abbiamo lasciato che il futuro si trasfigurasse in una logora guaina di speranza, seppellita sotto uno spesso strato di pregiudizi, egoismo e bugie. “È colpa mia, se siamo diventati indifferenti, più poveri, più tristi e meno intelligenti. Figlio mio, ci pensi? Tutto questo un giorno sarà tuo”.

Membri della band:

Pierpaolo Capovilla – voce
Gionata Mirai – chitarra
Giulio Favero – basso Francesco Valente – batteria

Tracklist:

1. Io ti aspetto
2. Due
3. A sangue freddo
4. Mai dire mai
5. Direzioni diverse
6. Il terzo mondo
7. Padre nostro
8. Majakovskij
9. Alt!
10. È colpa mia
11. La vita è breve
12. Die Zeit

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