Recensione a cura di Chiara Profili
22 marzo 1982. Gli Iron Maiden pubblicano The Number of the Beast, il terzo album in studio della band inglese, il primo con il nuovo cantante Bruce Dickinson e l’ultimo con il batterista Clive Burr, nonché il primo lavoro del gruppo a raggiungere la vetta della classifica britannica.
L’album risulta il maggior successo commerciale dei Maiden, con oltre 14 milioni di copie vendute nel mondo.
Nel 1982 l’heavy metal, specialmente in Gran Bretagna, era in grande ascesa. I Motörhead avevano spianato la strada al metallo pesante già nel 1979, con la pietra miliare Overkill. I Venom avevano già inciso il loro primo album e si accingevano a pubblicare il secondo, mentre i Judas Priest, sempre nel 1982, incidevano Screaming for Vengeance.
Anche Ozzy Osbourne si dava da fare con la sua carriera solista, a conferma del fatto che nei primissimi anni ‘80, il Regno Unito era ancora la fucina dell’heavy metal. Non lo sarà ancora per molto, poiché negli anni successivi il laboratorio creativo di quello che verrà chiamato thrash o speed metal, si sposterà oltreoceano, precisamente nella Bay Area di San Francisco, dove Metallica, Slayer e Megadeth prenderanno in mano la situazione.
Tornando ai Maiden, cambiare frontman dopo i primi due apprezzati dischi, era una mossa azzardata, che avrebbe potuto rivelarsi un suicidio. Paul Di’Anno era un grandissimo interprete, ma Steve Harris è sempre stato un gran lavoratore, uno di quelli ligi alla disciplina, e non poteva tollerare i comportamenti ribelli e gli abusi di droghe e alcol da parte di Di’Anno, che rischiavano di mettere a repentaglio la buona riuscita dell’imminente tour e la reputazione della band. La fortuna volle che, al Reding Festival, la band si imbatté nel giovane Bruce Dickinson, che all’epoca cantava in una band chiamata Samson, il quale dimostrerà fin da subito di essere un degno successore dell’ormai licenziato Di’Anno.
The Number of The Beast è quindi il battesimo di Bruce Dickinson, anche se può sembrare blasfemo definire così l’esordio del frontman inglese, dato il titolo dell’album.
Il disco prende il nome dal brano omonimo, con un chiaro riferimento al 666, il numero del Demonio, menzionato nell’Apocalisse, libro biblico attribuito all’apostolo Giovanni. Il brano è uno dei più celebri della band britannica e racconta di un incubo avuto dal bassista Steve Harris. L’introduzione doveva essere letta da Vincent Price, che però non era economicamente alla portata degli Iron Maiden di inizio carriera, così si scelse un attore che la recitasse alla stessa maniera di Price, che entrerà comunque a far parte della storia della musica, poco più di un anno dopo, prestando la propria voce per la parte recitata della celebre Thriller di Michael Jackson.
L’intero album è caratterizzato da un suono più heavy rispetto ai precedenti ed è sicuramente un punto di svolta per la band fondata da Harris.
Invaders, posta come prima traccia, è il trailer di quello che sarà il mood del disco, dove la voce acuta di Dickinson cavalcherà epicamente le chitarre di Dave Murray e Adrian Smith fino a raggiungere il culmine con la meravigliosa Hallowed Be Thy Name, che chiude l’album nello stesso modo in cui la condanna a morte del protagonista del brano ne conclude l’esistenza.
Nel viaggio che ci porta dall’inizio alla fine del disco incontriamo dei veri e propri capolavori del genere heavy metal, dalla cupa Children of The Damned, passando per l’accattivante e radiofonico ritornello di The Prisoner, arrivando al numero 22 di Acacia Avenue, l’indirizzo al quale risiede la prostituta Charlotte di Iron Maiden.
Arriviamo quindi alla title track. Dopo l’intro di cui abbiamo già parlato, il brano si apre con quelle che mi hanno sempre ricordato le prime note del gospel When the Saints Go Marching In. Anche in questo caso, il rischio blasfemia per l’accostamento è in agguato.
Comunque il brano è un vero e proprio manifesto della ‘Vergine di Ferro’ e viene suonato quasi sempre nei live della band inglese, così come Run to the Hills, il primo singolo estratto dal disco, che dal vivo è un’esplosione di energia.
Penultima traccia è Gangland, unico pezzo di The Number of the Beast a non portare la firma di Steve Harris, bensì quelle di Adrian Smith e Clive Burr.
Arriviamo quindi al già citato capolavoro di Harris, quella Hallowed Be Thy Name che trascinerà gli Iron Maiden nel 2017 in un’antipatica causa legale per un presunto plagio, causa che si risolverà con la modica cifra di circa 100.000 sterline, che verranno pagate da Harris e Murray per mettere fine alla vicenda ed evitare ulteriori spese legali.
Testo plagiato o no, poco importa, il brano è una vera e propria escalation di emozioni. Si riesce a percepire l’iniziale angoscia del condannato a morte, che tuttavia accetta il corso degli eventi auspicando che quella non sia davvero la sua fine, realizzando che quando sai che la tua ora è giunta, forse inizi a capire che la vita terrena è solo una strana illusione. Pezzo meraviglioso, disco meraviglioso e assolutamente imprescindibile.
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