Metallica
Death Magnetic
Warner Bros.
12 settembre 2008
genere: thrash metal, heavy metal, groove metal
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Recensione a cura di Marco Calvarese
Oggi vi proponiamo un salto indietro nel tempo apparentemente piccolo, se non fosse che, nel frattempo, c’è stata una rivoluzione digitale che ha travolto anche la musica. Death Magnetic, il nono LP in studio dei Metallica, non è il loro miglior prodotto, non ha cambiato il corso delle tendenze e giace in fondo al penultimo cassetto dei fan vecchi e nuovi, giusto sopra a quello in cui sono relegati, più o meno giustamente (giudicate voi), i tre che lo hanno preceduto.
Allora perché Fotografie Rock vi invita a rispolverarlo? Perché rappresenta, insieme, lo spartiacque e la sintesi hegeliana del percorso artistico della metal band più famosa del mondo. Per capire come ci siano arrivati, occorre fare un po’ di storia e di psicologia spicciola.
La nascita della leggenda è a tutti nota: nel 1991 i Metallica erano assurti al rango di più grande rock band del mondo, tracimando come un fiume in piena dal letto sicuro del thrash metal e concimando l’intero panorama musicale mondiale con il seme del Black Album. Succede che, quando ci si sente grandi, si ha la forza mentale e l’impulso a staccarsi dalla famiglia per andare alla conquista del mondo.
La voglia di sperimentare, mettersi in gioco, unita alle pressioni del mercato e, forse, alla tentazione del successo su larga scala appena assaggiato, aveva condotto James Hetfield e soci tra le braccia di Bob Rock. Cambiato il look, cambiato perfino il logo, i monarchi del metal avevano lasciato le mura sicure del proprio regno per inoltrarsi nel più vasto e insidioso pianeta del rock senza etichette, strizzando l’occhio prima al sound bluesy e southern (più marcati in Load) e subito dopo persino ai Soundgarden (Reload) e alle tendenze dell’epoca, in un viaggio virtuale dalla Bay Area attraverso la deep America sfiorando Seattle.
Da quel connubio eterogeneo nacquero due album qualitativamente notevoli che, pur conservando un marchio di fabbrica inconfondibile nelle distorsioni e nella struttura compositiva, sarebbe scivolato verso il rock and roll, sia nella componente timbrica e ritmica che nelle tematiche e nelle melodie. Tuttavia, il responso del pubblico non fu quello auspicato, tant’è che la frangia di fan più ortodossa prese le distanze da quel cambio di rotta.
I Metallica precipitarono in un limbo nel quale furono costretti a vagare per un decennio, passando per il mezzo fallimento di St. Anger: galeotta fu la scelta di inseguire ancora le mode, con un sound à la Kyuss e una produzione di stampo indie, da garage underground.
Ecco, allora, il ritorno del figliol prodigo: fatta esperienza nel mondo, tra successi e delusioni, si matura, e la maturità riconduce l’uomo alle proprie origini. Death Magnetic è, dunque, l’immersione purificatrice nel metallo fuso: dopo la tesi del trionfo sulla scena metal, l’antitesi della navigazione a vista nel mare incerto delle tendenze rock, finalmente la sintesi del ritorno a casa con rinnovati spirito e varietà compositiva.
I quattro cavalieri dell’apocalisse ci riescono attraverso un concept incentrato sulla morte, quale potente elemento polarizzante osservato da diverse angolature (anche quella nietzchiana di Broken, Beat & Scarred), seguendo un filo logico ben definito nella tracklist e un canovaccio sonoro che sa di rabbia repressa e tanta voglia di sfogarla, o meglio, sublimarla in musica (come nella potentissima All Nightmare Long).
Tutto sembra incasellarsi al posto giusto: prendete una opening track da manuale come That Was Just Your Life, forte di uno schema semplice fatto di intro, ritornello e assolo ottimamente arrangiati e con un riff portante che conquista muscoli e nervi sin dal primo ascolto. Prendete i due brani successivi, via via più articolati, ma adagiati su un sound tradizionalmente Metallica style e su riff groovy e assoli rapidi e graffianti, con ampio uso di wah wah (The End Of The Line) come tradizione vuole: un balsamo per le orecchie dei fan.
L’esordio in studio di Robert Trujillo al basso e il cambio di guardia dietro la consolle, con Rick Rubin a dirigere le produzioni, riempiono il suono colmando i precedenti deficit. Kirk Hammett sembra tornato in sé, scolpisce a colpi di ascia pentatoniche veloci e bluesy, che culminano nell’accattivante semi-ballad successiva (The Day That Never Comes), in un assolo che rimanda a chiare lettere ad un certo Blackmore.
E poi un crescendo di suite strumentali incastonate nelle piece, tanto varie e tecniche da richiamare sentori progressive (The Judas Kiss), fino a sfociare nella all instrumental (Suicide & Redemption) bellissima, malinconica e potente, per chiudere infine con il più classico dei thrash (My Apocalypse).
Tutto così bello, potente e vario, nonché ricco di richiami melodici e armonici ai grandi classici del passato, da far gridare al come back qualsiasi metallaro della prima ora. E così, infatti, accadde, con buon riscontro di critica e classifiche.
Cosa manca, dunque? Forse quel lampo di genio che riemerga dagli abissi della nostalgia, forse quel brano indimenticabile che fa di un buon album un grande album. In ogni caso, un lavoro forse non memorabile ma tanto emotivo, voglioso e preciso non merita di essere derubricato a mero opportunismo discografico: al contrario, qui dentro c’è tanto della vena artistica di …And Justice For All e lo schema compositivo sembra riprendere quel filo bruscamente interrotto nei nineties, recuperando però le dinamiche rockeggianti della parentesi di fine secolo. Un richiamo alle origini senza rinnegare nulla del proprio passato e una verve sperimentale che, tra alti e bassi, continuerà anche dopo e fino ai nostri giorni, sia pure sempre strizzando l’occhio alle leggi del mercato.
In conclusione: il metal patinato di successo non necessariamente depone gladio e scalpello. Non sempre mettere da parte “leather and metal” significa rinnegare l proprio carattere identitario. Così come sperimentare non equivale a tradire. Sarebbe il caso di lasciar libere le band di comporre la propria musica, mettendo al bando le ortodossie nostalgiche che accompagnano come ombre demoniache tutte le più recenti release delle band storiche (Senjutsu docet)…
Tracklist:
1. That Was Just Your Life
2. The End Of The Line
3. Broken, Beat & Scarred
4. The Day That Never Comes
5. All Nightmare Long
6. Cyanide
7. The Unforgiven III
8. The Judas Kiss
9. Suicide & Redemption
10. My Apocalypse
Formazione:
James Hetfield: voce e chitarra
Kirk Hammett: chitarre
Robert Trujillo: basso
Lars Ulrich: batteria
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