Porcupine Tree: recensione di Closure/Continuation

Porcupine Tree

Closure/Continuation

Music For Nations

24 giugno 2022

genere: prog rock, funk, elettronica, west coast sound, sci-fi, psichedelia folk, math-rock, trip-hop
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Recensione a cura di Andrea Musumeci

Nonostante l’allerta siccità e il problema della crisi climatica che incombe sul presente-futuro dell’umanità, l’albero del porcospino continua a produrre i suoi frutti, grazie alla fertile sensibilità creativa del progetto britannico Porcupine Tree – formato da Steven Wilson, Richard Barbieri e Gavin Harrison (per la prima volta senza lo storico bassista Colin Edwin) – nato alla fine degli anni ’80 da un’idea visionaria del suo leader Steven Wilson.

Dopo ben dodici anni di pausa dal precedente lavoro discografico The Incident, è uscito Closure/Continuation, il nuovo album (undicesimo in studio) a firma Porcupine Tree, composto da sette tracce più tre bonus track contenute nell’edizione speciale e anticipato dai singoli Harridan, Herd Culling, Of The New Day e Rats Return.

Non solo. Oltre alla reunion e alla pubblicazione del nuovo disco, i Porcupine Tree torneranno live con una serie di date che toccheranno l’America e l’Europa. Questi saranno i primi concerti della band dall’ottobre 2010 e arriveranno anche in Italia con un’unica data, il 24 ottobre, al Mediolanum Forum di Assago.

Diventati col tempo un vero e proprio oggetto di culto nel loro genere, sia per gli appassionati di quell’art rock settantiano di origine anglosassone, sia per coloro che hanno abbracciato un concetto più ampio di musica progressive, i Porcupine Tree hanno voluto smussare e levigare alcune eccessive asperità hard rock e metal del proprio tessuto ritmico, misurandosi con una rinnovata ispirazione e un groove in parte più accessibile, focalizzandosi su uno schema più riflessivo, intimo e analitico – più quiet che loud – pur senza rinunciare all’intelaiatura fonica che ha marchiato il loro background stilistico.

Si va dai King Crimson ai Pink Floyd, dai Wishbone Ash all’elettronica sinistra di matrice trentreznoniana (Walk The Plank), dal west coast sound statunitense targato Boston alle sonorizzazioni kubrickiane e carpenteriane, dalla teatralità dei Marillion hogartiani a Kiss From a Rose di Seal (Dignity), dal classic prog dei Genesis alla freschezza compulsiva del math-rock blackmidiano.

Un comeback autorale fertilizzato nel corso di quest’ultimo decennio, contraddistinto da una visione esistenziale più saggia e da una rigenerata coesione di elementi complementari, così da amplificare un cluster corale di suggestioni metronomiche e atmosfere umorali dal risvolto cinematico, in cui le raffinate incursioni elettroniche dell’ex tastierista dei Japan Richard Barbieri confluiscono nella passione per le poliritmie percussive di Gavin Harrison (già nei King Crimson e The Pineapple Thief) e nell’estro epidermico e scientifico del polistrumentista Steven Wilson.

Closure/Continuation è di per sé un titolo ambiguo, che gioca con le corrispondenze tra gli opposti, con il delicato equilibrio tra forze avverse, aprendosi a differenti ed enigmatiche interpretazioni: chiusura e continuazione di una traiettoria prima interrotta e poi ripresa, che si raccoglie nell’andamento circolare della vita, nell’assunto per cui nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, si rigenera, in cui ogni cosa è in perpetuo divenire.

Composizioni narrative intrise di storie personali, di metafore sulla condizione umana che rallentano sull’inquietudine dei nostri giorni, quando attraverso le nostalgiche armonie degli accordi di settima, quando mettendo in risalto una drammatica sospensione dalle tonalità oscure e spettrali; quasi a voler tracciare una linea temporale tra l’idea di vecchio e nuovo mondo, simulando una tara emotiva tra ciò che eravamo, quelli che erano i sogni di gioventù e ciò che invece siamo riusciti a realizzare, sia come individui sia come collettività.

Come se una volta superata la soglia dei 50 anni fossimo costretti ad accarezzare un agrodolce senso di rassegnazione, di concretezza, vivendo nel rimpianto per tutte le domande senza risposta e nel rimorso delle scelte sbagliate, per poi svegliarci e accorgerci, a posteriori, che certe idee somigliano sempre più a terre disidratate e che quei sogni di gioventù, tutto sommato, non erano altro che chimere (Chimera’s Wreck) troppo grandi per le nostre possibilità.

L’apripista Harridan mette in mostra diversi cambi di costume sonoro, passando dalle ritmiche sincopate prog funk in stile Primus a derive psichedeliche di rimando sci-fi, che arrivano a sublimarsi nella quiete onirica, malinconica e catartica del finale acustico, in una sorta di epica folk dagli echi medievali.

Of The New Day, nella sua estetica di ballad romantica, è una canzone che apparentemente parla di ottimismo e rinascita; un’illusione percettiva che invece si rivolge all’ignoto, alla precarietà dei nostri tempi, ripetendo e rimarcando quel poetico “almost rain” già presente nel testo di Harridan.

Of The New Day è una delle canzoni più belle mai scritte da Steven Wilson. Anzi, più che una canzone, viene da pensare a un malinconico abbraccio: uno sguardo verso l’età che avanza, nei “fusorari” che invertono rotta, insieme a quei blocchi mentali che, da un lato, fottuti dalla nostalgia, impediscono di strappare certe pagine del passato, e dall’altro rimangono intrappolati nell’incertezza dell’oggi, attendendo che la nebbia del domani si diradi dietro l’alba di un nuovo giorno.

Contenuti cupi e irrequieti riflettono sociopatia e paranoie dell’era moderna, come ad esempio nell’ansiogena Herd Culling (“Son, go fetch the rifle now, I think there’s something in the yard, I can see the herd is getting rattled, And the dogs are on their guard”), oppure la regressione culturale dell’attualità, come nella contemporaneità distopica di Rats Return, da cui emerge un chiaro parallelismo tra i comportamenti dei topi di laboratorio e gli esseri umani, quest’ultimi sempre più schiavi e carnefici del proprio destino, divisi tra l’essere e l’apparire, vittime del potere persuasivo di subdole e polarizzanti manipolazioni mediatiche.

Esaurimento delle fonti energetiche, del cibo e inquinamento ambientale: è veramente questo lo scenario orwelliano che porterà al declino irreversibile della razza umana? Progressivamente, ci siamo trasformati in tanti Winston Smith che vivono nel loro anti-utopico Universo 25, perennemente insoddisfatti e costantemente alla ricerca di un qualcosa di irraggiungibile (Never Have), che verosimilmente non avremo mai.

“You need but you’ll never have, You dreamed, but you never had the chance to be […], ‘Cause the truth hurts, This is the modern world”

Rievocando, dunque, istantanee e profumi che appartengono alle stanze remote della memoria, i Porcupine Tree confidano ancora nel dono dell’arte, in quell’anima sensibile, libera ed eternamente giovane, lasciandosi andare al disincanto di quella reciproca promessa che nasce dalla vita (“Falling back to earth, We get what we deserve, […] What is born will die in time”), da quel punto di raccordo dove chiusura e principio finiscono per mescolarsi e confondersi in un tutt’uno magico e misterioso.

Tracklist:

1. Harridan
2. Of The New Day
3. Rats Return
4. Dignity
5. Herd Culling
6. Walk The Plank
7. Chimera’s Wreck

Bonus Tracks:

1. Population Three
2. Never Have
3. Love In The Past Tense

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