Rainbow Bridge: recensione di Lama

Rainbow Bridge

Lama

2018

(Autoprodotto)

genere: rock n’ roll garage psichedelico, blues, southern

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

Cosa c’è di meglio della musica rock psichedelica nel mese afoso di giugno, con il sole che picchia forte e 40 gradi all’ombra?

Roba che genera allucinazioni… “soprattutto se hai mangiato cozze nere crude e Peroni ghiacciate”. (cit. Giuseppe Cassatella)

Soltanto a settembre dello scorso anno, il trio pugliese Rainbow Bridge pubblicava Lama: album composto da sei tracce di stampo hendrixiano, completamente autoprodotto.

La band pugliese dedica un vero e proprio tributo di 40 minuti a sua maestà Jimi Hendrix, senza dubbio la massima espressione del rock blues psichedelico da quando l’uomo inventò il calesse.

Del resto, i tre sciamani di Barletta continuano a sventolare, con fierezza, la loro idolatria nei confronti del bluesman di Seattle.

Le sei tracce all’interno dell’album hanno come comun denominatore l’influenza della musica di Jimi Hendrix, sebbene all’interno del disco si possano scovare anche altri riferimenti musicali della scena musicale degli anni ’60 e ’70.

I Rainbow Bridge ne hanno fatto una vera e propria ragione di vita, anche fuori dal palco.

Lama è il ponte arcobaleno che collega le distorsioni rock moderne alle sonorità blues di un passato che, oggi, sembra così lontano e fuori moda.

Ma è altresì vero che il rock blues psichedelico è un linguaggio dell’anima: trascende dal concetto di spazio e tempo, e per questo motivo avrà sempre un posto d’onore nell’Olimpo degli Dei, sia che vi troviate nel deserto della California oppure in mezzo alle pianure del Tavoliere delle Puglie.

Quello dei Rainbow Bridge è un ponte immaginario tra presente e passato, fatto di assoli wah wah roventi che si sciolgono come la burrata di Barletta, e di suoni autoctoni e riff corposi, che sanno di vino strutturato e fermentato, come il Nero di Troia.

L’artwork del disco raffigura una serie di cliché dell’immaginario psichedelico: il deserto, gli avvoltoi, il lama ed un paio di cactus, uno dei quali somiglia più a un grosso dito medio.

L’album si apre con la danza tribale e strumentale della titletrack, con la quale i tre lama lisergici, tengono ancora vivo il fuoco dei Cactus e dei Blue Cheer.

Day After Day è una ballata arida, cosmica, con un cantato che è più un lamento, che ci accompagna attraverso i suggestivi paesaggi desolanti, polverosi ed allucinanti del deserto, decidete voi quale.

Spit Jam non è altro che una breve jam session, interamente strumentale, che sputa fuori tutto il sound che fu dei Black Sabbath e dei Led Zeppelin.

Lama conclude il cammino sciamanico della puntina sul vinile con No More I’ll Be Back, brano nel quale la chitarra prende letteralmente fuoco (come non ricollegare a Jimi Hendrix…) e la tempesta psichedelica ritrova la sua pace interiore nel blues garage del delta del Mississippi.

Ancora una volta il Sud Italia tiene alta la bandiera del rock garage psichedelico, grazie anche al suo clima ed alla morfologia del suo territorio, così affine a quei territori americani che confinano con il Messico.

In conclusione: vi assicuro che dopo aver ascoltato questo disco vi chiederete: “Ma precisamente, in che anno siamo?”

Line-Up:

Giuseppe JimiRay Piazzolla, voce e chitarra

Fabio Chiarazzo, basso

Paolo Ormas, batteria

Tracklist:

01. Lama

02. The Storm is Over

03. Day After Day

04. Words

05. Spit Jam

06. No More I’ll Be Back

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