Recensione a cura di Andrea Musumeci
11 giugno 1991. Gli Skid Row pubblicano Slave To The Grind, il loro secondo album in studio, edito per Atlantic Records.
Era l’estate del 1991 e l’heavy metal era ancora un tipo di musica molto popolare in tutto il pianeta. Il grunge era ancora un feto di sei mesi, ma da lì a tre mesi avrebbe visto la luce, e avrebbe catalizzato l’attenzione di tutti, mettendo di conseguenza in disparte i fratelli maggiori del decennio precedente.
Gli avidi anni ’80; l’enfasi ipocrita per il capitalismo filosofico, in cui tutti erano superstar, e la retorica del combattente. Un vero paradosso se si pensa al rock di fine anni ’60, e dei primi anni ’70, trainato dallo spirito di reazione politica nei confronti dell’amministrazione di Nixon. Gli anni ’80 saranno, invece, ricordati per il boom della cultura edonista, in ogni ambiente dell’arte. A volte era difficile andare oltre l’immagine, ma era lo stile dell’epoca. Dal punto di vista culturale era semplicemente il riflesso della società in cui si manifestava.
Gli Skid Row esordirono nel 1989 con lo straordinario album omonimo di puro hard rock: aggressivo, rabbioso, melodico e radiofonico. I primi due dischi degli Skid Row potrebbero essere raffigurati, secondo una percezione più contemporanea, come un orso grizzly che si scaglia contro un gruppetto di hipsters ricoperti di miele.
Gli Skid Row erano talmente anni ’80, o forse sono io che li considero tali, che sembra difficile pensare che siano usciti soltanto alla fine di quel decennio, e che abbiamo lasciato una traccia indelebile solamente grazie alla qualità dei primi due prodotti discografici.
Con il terzo capitolo, Subhuman Race, a metà degli anni ’90, provarono a scrollarsi di dosso quell’etichetta glam anni ’80, ma il risultato fu un vero e proprio flop. Tutto d’un tratto, gli Skid Row diventarono “off topic”, sebbene, in fondo, Subhuman Race fosse un buon disco, o quantomeno migliore di tanti altri in ambito hard rock usciti in quel periodo.
Però, diamo a Cesare quel che è di Cesare, e nel loro caso, diamo agli Skid Row quel che è degli Skid Row. In quel momento storico, torniamo agli anni ’80, un sacco di band promettevano che avrebbero fatto album sempre più ‘heavy‘, senza poi però mantenere quelle promesse e le aspettative dei fan. Ma gli Skid Row, invece, lo fecero veramente.
Furono tra i pochi a mantenere quel tipo di promessa, proprio con Slave to the Grind, che potrebbe addirittura sembrare un disco della fase Megadeth anni ’90. Alcuni brani di questa release, quali Monkey Business, Slave To The Grind, Riot Act, In A Darkened Room e Quicksand Jesus, sono divenuti delle vere e proprie hit di successo.
È un vero peccato che questa band si sia persa troppo presto. Gli Skid Row, all’inizio degli anni ’90, erano una delle poche band che poteva fare una ballad come I Remember You e, allo stesso tempo, andare in tour coi Pantera.
Ciò che rimane degli Skid Row, dell’era Bach, è un tassello fondamentale nell’hard rock classico; genere che oggi vive solamente di autoreferenzialità e di nostalgico revivalismo.
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