Intervista a Ricky Portera

Ricky Portera è uno dei più grandi chitarristi italiani. Fondatore degli Stadio, insieme a Gaetano Curreri, nella sua carriera è stato anche collaboratore di Lucio Dalla, chitarrista di Ron e di altri autori italiani come Eugenio Finardi e Loredana Berté.

Ricky ci ha cortesemente concesso un’intervista schietta e senza filtri, nella quale ci ha parlato del suo passato e del presente, senza giri di parole.

FOTOGRAFIE ROCK: Ciao Ricky. Sappiamo che hai scritto un libro, dal titolo Ci sono cose che non posso dire, nel quale racconti la tua storia. Per chi non avesse ancora avuto modo di leggerlo, vuoi raccontarci qualcosa tu?

RICKY PORTERA: Innanzitutto sappiate che io sono nato morto. Dico questo perché ciò ha avuto una valenza fondamentale nella mia vita, in quanto le mie decisioni non sono mai state prese razionalmente, ma bestialmente, in maniera animalesca. Non ho una grande capacità di raziocinio. Comunque quando ero piccolino volevo fare il batterista; mia madre però, non capì il valore di questo strumento e contattò un insegnante di sax. Durò il tempo di tre lezioni e poi sparì. Mia madre insistette portandomi a scuola di canto e dopo due anni mi spronò a suonare la chitarra. Inizialmente odiavo questo strumento che mi faceva venire le vesciche nelle dita, lo tolleravo solo per far contenta mia madre, fin quando non mi ruppe una Eko da 6.000 Lire sulla testa, che fortunatamente era cartonata. A quel punto non so se per paura, o per una passione innata venuta fuori con la botta in testa, m’innamorai della chitarra, addirittura ci dormivo insieme, ci facevo anche l’amore.

FR: Ringraziamo tua madre per avertela data quella botta.

RP: Tutto è iniziato da lì, poi è stato un crescendo, a volte un calando, praticamente come la borsa. Per questo dico sempre che quello del musicista è un lavoro del cazzo, perché segue delle condizioni che non si riescono a preventivare. Siamo lavoratori alla giornata, siamo come i nomadi, un giorno qua, un giorno là, non sappiamo dove saremo domani e se ci saremo.

FR: Forse, però, è proprio questo il bello del vostro mestiere. L’imprevedibilità di ciò che potrà accadere, rispetto ad un lavoro più statico come quello dell’impiegato.

RP: Uh, bellissimo. Specialmente quando ti arrivano le bollette da pagare. [ride]

FR: Hai dichiarato, a tal proposito, di essere uno dei chitarristi italiani più conosciuti, ma anche il più povero.

RP: Assolutamente, è vero. Infatti ho fondato una Onlus che si chiama www.vucumpràunacasettaperrickyportera. [ride]

FR: Tornando ai tuoi inizi, ci hai parlato di tua madre e quindi deduciamo che la tua famiglia abbia giocato un ruolo importante nello sviluppo della tua carriera.

RP: Sì, una volta scattato il meccanismo, devo tutto a loro. Mio papà si è sacrificato moltissimo per me. Ho iniziato a suonare in varie band quando avevo 11 anni. Mio padre era un maresciallo dei Carabinieri e la sera, quando rientrava dal lavoro, mangiava un boccone in fretta e mi accompagnava a fare le prove. Tutto quello che sono riuscito ad ottenere in quel periodo lo devo soprattutto a mia madre, in qualità di fan, e a mio padre per il supporto logistico e morale.

FR: Un comportamento abbastanza inusuale per l’epoca. Solitamente i genitori di una volta insistevano più sullo studio, mentre tutto il resto, dal pallone alla chitarra, veniva considerato una perdita di tempo.

RP: C’è da dire che anche come studente ero abbastanza in gamba. Mi sono diplomato geometra, poi ho fatto un anno di ingegneria e quattro di medicina. Diciamo che non sono propriamente uno stupido.

FR: Sei sempre riuscito a conciliare la tua passione, con lo studio.

RP: Sì, a volte tornavo a casa dopo aver suonato nelle sale da ballo alle cinque di mattina, mi facevo una doccia veloce e poi andavo a scuola. Dimostravo ai miei genitori che l’impegno e la volontà c’erano e loro mi lasciavano in mano questo giocattolo.

FR: Quand’è che hai capito che quel giocattolo sarebbe diventato una professione?

RP: In realtà da subito, perché a 11 anni e mezzo lavoravo già nei night, accompagnavo gli strip-tease e prendevo 5.000 Lire a sera. Quindi era già un lavoro.

FR: Un bambino prodigio.

RP: Sì, lo sono stato, ma mi sono fermato là, come la maggior parte dei bambini prodigio, perché raramente succede qualcosa che fa raddoppiare la tua consapevolezza, il tuo modo di essere. Quando sei già a quota dieci a 11 anni, arrivare a quota venti è difficilissimo. Quindi sono rimasto alla mia quota dieci degli 11 anni, e a quell’età anche intellettivamente. [ride]

FR: Vale a dire che il talento non basta se non è supportato, negli anni, da tanta disciplina. Tu ci dicevi, invece, che ragioni in maniera animalesca e impulsiva.

RP: Essere un musicista non comprende solo il fatto di saper suonare o scrivere una canzone. Significa gestirsi a 360 gradi, dalla propria immagine, al rapporto con la gente, al management. Anche questi sono aspetti in cui devi crescere, non solo a livello musicale.

FR: È forse per questo motivo che sostieni di essere il chitarrista più povero? Perché a causa del tuo carattere non sempre sei riuscito ad essere accondiscendente, riflessivo e disposto a scendere a compromessi?

RP: Certamente. Io non credo molto ai compromessi, credo solo ai gusti. Ho sempre cercato di fare solo ciò che mi piaceva. Quando le cose non mi sono piaciute più ho lasciato Dalla, ho lasciato gli Stadio, ho lasciato zone sicure per luoghi con il punto interrogativo. Non riesco a vivere un qualcosa che non mi dia soddisfazione, che non mi faccia godere. Anche perché ho una grande stima del pubblico che ho davanti. Ho lavorato con molti artisti i quali pensano che il pubblico sia ignorante, ma non è così. Il pubblico non conosce approfonditamente, ma ha una sensibilità incredibile e capisce subito quando lo stai truffando. Per questo motivo ho voluto fare le cose sempre con sincerità.

FR: Com’è nata l’avventura con gli Stadio e con Gaetano Curreri?

RP: Con Gaetano ci conoscevamo fin da quando eravamo ragazzini, io avevo 13 anni e lui 15. Suonavamo insieme nelle grosse balere, facevamo muovere la gente. È stata una grande palestra quella. Poi, nel ‘77, ricevetti la proposta di lavorare con Lucio Dalla, il quale, dopo quattro mesi, ebbe il desiderio di avere anche un tastierista. Io, ovviamente, chiamai Gaetano. Da lì nacque tutto. In seguito ci fu il tour di Banana Republic e per ripagarci di ciò che non avevamo avuto in quel tour, che fu un fallimento per noi musicisti, Lucio decise di creare gli Stadio. Noi siamo stati creati a tavolino, la formazione della band è stata come il biscottino che dai al cane quando ha ubbidito ed è stato bravo.

FR: Un fallimento a livello economico, intendi?

RP: Sì, esatto. Per loro due fu un successo, ma noi musicisti di quel tour fummo tra i meno pagati in Italia e quelli con il maggior afflusso di pubblico. Facevamo 50.000, anche 80.000 persone, siamo arrivati a 100.000 in piazza Duomo. Vedevamo circolare tanto denaro, ma non era il nostro, malgrado ci fosse stato detto che se le cose fossero andate bene, lo sarebbe stato per tutti. E qui torniamo alla frase “famoso, ma povero”.

FR: Hai dichiarato anche che non bisogna parlare per forza bene di una persona, solo perché non c’è più.

RP: C’è questa maledetta usanza di santificare i morti. Secondo me, se uno ha avuto dei momenti di stronzaggine in vita, bisogna riconoscerglieli anche da morto. Ho detto così di Lucio, che è stato una grandissima figura nella mia vita, un genio e a lui devo tutto. Però aveva i suoi momenti e quando li aveva erano proporzionati al suo potere, che non era il potere di un bambino. Se è stronzo un bambino ci ridi sopra, se ad essere stronzo è un imperatore inizi a preoccuparti. Ho sentito interviste che mi hanno fatto venire il vomito; gente che l’ha odiato in vita, parlo di suoi colleghi cantautori, che vedevo di persona e notavo nei loro sguardi quanto tutto fosse forzato. Lucio era un genio, al contrario degli altri, che erano sotto di lui di quattro spanne, malgrado i loro successi. Persone umanamente inutili e quindi Lucio era odiato. Una volta morto, solo elogi. Avrei voluto intervenire qualche volta, per rispondere a queste interviste, ma se il mio libro s’intitola Ci sono cose che non posso dire, è perché devo ancora lavorare.

FR: C’è questo buonismo generale per cui non si possono dire cose negative su un artista, specialmente se è scomparso. Fra colleghi vige davvero tutto questo rispetto?

RP: Assolutamente no, è stucchevole convenienza, nessuno vuole prendersi le proprie responsabilità e in questo modo stiamo rovinando anche la musica. Se vediamo una foto di Curreri di fianco ad Achille Lauro, pensiamo automaticamente che questo Lauro sia uno tosto, se ha Curreri accanto. Io non me la faccio la foto con Achille Lauro. Piuttosto vado a Livorno, cerco la nave e mi faccio la foto con quella. Ci vuole un po’ di pudore e dignità.

FR: A proposito di Achille Lauro, che idea ti sei fatto della musica di oggi è del suo linguaggio?

RP: Userò un passaggio di Humphrey Bogart in Casablanca. Quando lei disse a lui: “Ma tu mi disprezzi?”. Lui la guardò e le disse: “Per disprezzarti, dovrei prima prenderti in considerazione”.

FR: Bellissima citazione. Però un’idea, anche solo in generale, te la sarai fatta.

RP: Devo guardare un Festival di Sanremo dove su 24 canzoni, non ricordo, 23 sono di rapper o trapper? Queste cose m’infastidiscono. Basta alla musica usata da uomini di potere solamente per guadagnare! La musica è un bene di tutti, un bene del quale bisogna godere e del quale non bisogna fare una dittatura. Ci impongono cosa ascoltare perché ciò darà poi loro un ritorno economico. Ho visto Sanremo, ero un grande fan di Baglioni, ma mi è caduto in basso in ogni modo possibile. Non è possibile fare un Sanremo in cui promuovi la tua compilation. È stato il festival della finzione. Sono un grande amante di Bisio, ma a Sanremo l’ho visto finto e Virginia Raffaele aveva continuamente un sorriso falso stampato in faccia. Il festival è in mano ad un’agenzia che la prossima estate guadagnerà, dai concerti degli artisti che hanno partecipato alla kermesse, il quadruplo di quello che ha investito per Sanremo. Ma è giusto questo?

FR: Purtroppo ormai nella musica prevale l’aspetto del business, su quello artistico.

RP: Pierdavide Carone aveva scritto una canzone fantastica. Invece è stato scelto Achille Lauro, solo per dirne uno. Al posto di un brano con un testo serio, che ti fa pensare, che provoca brividi, hanno preferito “Soldi, soldi, soldi”.

FR: Oltretutto c’è questa ipocrisia nel nostro paese, per la quale si devono per forza toccare tutte le tematiche e le problematiche sociali.

RP: Ma magari fossero venute fuori delle tematiche sociali! Il livello del festival è stato ben più basso. Ci rendiamo conto che mancano i programmi musicali e che quei pochi che ci sono sono una presa per il culo?

FR: È da poco ricominciato Ossigeno, il programma di Manuel Agnelli. L’hai visto?

RP: E chi è? Quello che ha fatto il giudice in non so quale talent?

FR: Beh, ogni tanto qualcuno ci prova a parlare, con competenza, di musica in televisione.

RP: Non è che ci prova, glielo fanno fare. Adesso abbiamo anche la nuotatrice che giudica [Federica Pellegrini a Italia’s Got Talent ndr]. Stiamo facendo una grande confusione. Stiamo dando ragione ad Andy Warhol, stiamo dando a chiunque il proprio quarto d’ora di celebrità e ne sono la riprova programmi come il Grande Fratello o l’Isola dei Famosi. E noi siamo dei voyeur, come gli anziani che sbirciano tra le tapparelle la gente che passa per strada.

FR: Infatti il problema è che questi programmi sono seguiti, mentre se si prova a fare qualcosa di più serio, legato alla musica per esempio, si riscuote poco successo.

RP: Eppure ce n’è di gente brava a far musica in Italia, ci sono dei ragazzini con le palle che suonano benissimo, ma non trovano spazio perché non hanno 50.000€ da passare alle radio private per farsi promozione. Una volta erano le radio private che venivano a strisciare ai nostri piedi per avere i nostri dischi. Adesso strisciano per chiederti 40.000€ per passarti in radio tre volte al giorno per un mese, all’ora che dicono loro. E la gente, che non capisce niente, pensa che se una canzone passa in radio, allora vuol dire che è bella. In radio passa solo chi paga. Se questa è la musica oggi, io appendo la chitarra al chiodo. Non è possibile andare a fare delle serate, suonare un pezzo dei Beatles e sentire la gente che viene lì e ti chiede di chi sia il brano.

FR: Quindi mi stai dicendo che se chiedessimo, oggi, ad una ragazza di 15 anni d’età chi erano i Beatles, lei non saprebbe rispondere?

RP: Al massimo metterebbe qualcosa nel carrello e lo comprerebbe con la carta di credito del papà, senza preoccuparsi troppo della sua ignoranza. Magari li ascolterebbe anche, ma non si porrebbe il problema di capire chi sono stati i Beatles, da dove venivano, cosa hanno rappresentato. Come dire che indosso le mutande perché so che va fatto, ma non so chi le ha inventate e da dove arrivano le mutande. Anche se in verità non lo so nemmeno io chi ha inventato le mutande. [ride]

FR: Guardandoti indietro, sei contento delle scelte che hai fatto nella tua carriera? Dell’esserti distaccato da certe logiche, visto che ci stai dicendo di non riconoscerti più in quella che è la musica oggigiorno?

RP: Io sono felice di aver vissuto in quelli che sono stati gli anni migliori per la musica e per i rapporti sociali. Ho vissuto il ‘68, epoche in cui c’erano dei valori. Non andavamo a farci i selfie, non mettevamo su Instagram ciò che stavamo mangiando. Adesso l’arte non esiste più, si fa pubblicità alla Acultura, all’ignoranza. Meno cose sai e più puoi far successo. Fanno fare le serate alle troniste attempate di Uomini e Donne, ma dove siamo arrivati?

FR: Ci sembri molto in sintonia con un altro grande personaggio che abbiamo intervistato, Pino Scotto. Tra l’altro sappiamo che avete lavorato insieme.

RP: Grande Pino. Un giorno stavo cantando un brano che si chiama Fottili e mentre lo cantavo mi chiedevo: “con chi potrei farlo?”. Mi si è accesa subito la lampadina.

FR: Parlando di altre collaborazioni, sappiamo tutti che hai lavorato anche con Carlo Verdone nei film Borotalco e Acqua e Sapone.

RP: Carlo è fantastico, è l’uomo più timido del mondo.

FR: Al contrario di come appare nelle sue pellicole.

RP: Eh sì, perché l’artista si fa forte dei personaggi che veste. Simulando una finzione, diventi più coraggioso. Comunque lui nella vita è una persona gradevolissima.

FR: Un grandissimo esperto ed appassionato di musica, anche. Comunque voi artisti siete un po’ come dei supereroi.

RP: Sì, io sono Superpalla. [ride] Comunque sì, anche perché ci vuole del coraggio a fare questo mestiere per tutta la vita.

FR: Nella colonna sonora di Borotalco è presente il famoso pezzo degli Stadio, Grande Figlio di Puttana, a te dedicato. Come mai Lucio Dalla ti diede del figlio di puttana? Per chi ancora non conoscesse questa storia, ce la vuoi raccontare?

RP: Nell’81 ero in tour con Eugenio Finardi e contemporaneamente stavamo lavorando in studio a Bologna per il primo disco degli Stadio. Quando avevo un day off, passavo dallo studio e registravo delle chitarre, solo sui metronomi, senza che ci fosse una melodia o degli accordi. Al massimo me la canticchiavano e io ci suonavo sopra. Un giorno ero andato via e Lucio [Dalla] aveva iniziato ad ascoltare il materiale che avevo lasciato, così disse: “Ma guarda questo figlio di puttana, che anche quando non c’è ci lascia delle cose sulle quali poter lavorare”. Così è nata la canzone, con dedica.

FR: Un’ultima curiosità, prima di concludere. Quali sono gli artisti a cui ti sei ispirato maggiormente?

RP: I chitarristi che per me sono stati delle vere icone sono quattro: Jeff Beck, Jimi Hendrix, Rory Gallagher ed Eddie Van Halen.

FR: Rory Gallagher, tra questi, possiamo dire che sia stato il più sottovalutato, o comunque il meno reclamizzato?

RP: Sì e per me questa è stata una fortuna, perché ispirandomi a lui mi trovavo a suonare in modo diverso da tutti gli altri. Rory Gallagher era uno che non faceva un ampio uso delle pentatoniche, ma che ci girava intorno ed io avevo preso un po’ questo suo stile.

FR: Hai citato anche un chitarrista un po’ più recente, come Eddie Van Halen.

RP: Sì, l’ho sempre amato, non tanto per i suoi assoli, quanto per il modo in cui riesce ad accompagnare il tessuto che crea sotto alle canzoni. Andrebbe studiato per questo, più che per gli assoli.

FR: Grazie mille per questa intervista Ricky, sei stato davvero coraggioso.

RP: No, io non sono coraggioso. Sono incosciente!

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