Sonic Youth: recensione di Daydream Nation

18 Ottobre 1989.
Esce Daydream Nation, quinto album, nonché primo doppio, dei Sonic Youth, band con base a New York: capolavoro che fonde avanguardia e cultura pop.

Dopo l’avventura con la SST Records, il gruppo di Thurston Moore (voce e chitarra), Kim Gordon (voce e basso), Lee Ranaldo (voce e chitarra) e Steve Shelley (batteria) decide di fare un timido salto verso il mondo major tramite la Enigma Records, al tempo affiliata con la Blast First, che nel 1985 pubblicò Bad Moon Rising, il secondo lavoro dei Sonic Youth, e venne in soccorso della band che si trovava senza etichetta.

Infatti, dopo la pubblicazione dell’oscuro Evol dell”86 e del più punk ed energico Sister, entrambi pubblicati sotto l’egida della SST, il gruppo doveva superare il disincanto suscitato da una storica etichetta indipendente decaduta. Il modo migliore era seguire gli esempi di altri grandi che allo stesso modo hanno mescolato punk e sperimentazione, e che avevano compiuto il salto dal mondo indipendente a quello del corporate rock, ovvero gli Hüsker Dü.

Il passaggio dal mondo DIY a quello major non fu però netto; l’Enigma infatti si trovava nel mezzo, in quanto aveva sia in passato distribuito titoli del panorama indipendente americano (Minutemen, Descendents, Dead Milkmen, Leaving Trains), e sia che era stata affiliata alla Capital Records, major a tutti gli effetti.

Daydream Nation è pura potenza atonale e distorta, animato da testi che parlano di frustrazione e rabbia nei confronti del provincialismo negli USA, e dell’azione purificatrice del mondo indipendente di cui Moore e compagni si fanno portavoce.

Ma senza farsi troppe illusioni, in quanto ci troviamo nella nazione che sogna ad occhi aperti; è rappresentativa infatti la copertina, ovvero un’opera dell’artista Gerhard Richter, amico della Gordon, che ritrae una luce fievole, una candela accesa, all’interno di un ambiente in penombra.

Il viaggio lungo i solchi, all’interno di un doppio vinile tra pezzi sui sette minuti e qualcun altro un po’ più breve, emana vibrazioni a volte caustiche a volte più solari, ma nel suo complesso siamo davanti ad una produzione magistrale, diretta da Nick Sansano, quest’ultimo noto per la sua collaborazione con il mondo hip hop, tra cui It Takes A Nation Of Millions To Hold Us Back dei Public Enemy, a cui stava dando una mano con il mixaggio nello stesso periodo delle registrazioni di Daydream Nation.

Una produzione che non cade mai nello scadente, e che si adatta perfettamente al suono caratteristico del gruppo newyorkese, armonizzando sia con il loro lato agrodolce che con quello più dissonante, tra accordature poco convenzionali e bacchette infilate nelle chitarre.

L’apertura di Teenage Riot è una delle migliori del gruppo. Prima un intro che sembra irraggiare i primi istanti dell’alba, e la voce della Gordon, che quasi sussurra “we will fall”, suggerendo una situazione poco favorevole. Poi il pezzo vero e proprio, un inno estemporaneo sulla rivoluzione della cultura hardcore/post hardcore contro il conservatorismo americano.

In Silver Rocket le parole sembrano ancora essere propositive, anche se si hanno le prime dissonanze e primi bordoni di feedback. In The Sprawl le parole sono più caustiche, e non mancano i convenzionali maltrattamenti delle chitarre, anche se la melodia è più distesa.

Eric’s Trip, Hey Joni e Rain King sono pezzi più narrativi ad opera di Ranaldo, anche se la musica firmata Sonic Youth non manca.

Infine, in Trilogy si avverte un certo disincanto definitivo per la comunità DIY, in un crescendo di suoni sempre più violenti.

Daydream Nation è un grande album, un lavoro il cui valore segnerà la carriera dei Sonic Youth, ed influenzerà anche i lavori successivi della band.

Del resto, combattiamo anche noi per una ipernazione.

recensione a cura di Giovanni Panetta

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