The Beatles: recensione di Abbey Road

Recensione a cura di Chiara Profili

26 settembre 1969. I Beatles pubblicano Abbey Road, il loro decimo album, l’ultimo ad essere stato inciso, poiché il successivo Let it Be contiene brani registrati precedentemente.

Stavano ormai volgendo al termine gli anni ‘60 e con loro anche l’isteria della beatlemania. I giorni dei capelli a caschetto sembravano ormai lontani, sui volti dei Beatles erano cresciute delle folte barbe e Yoko Ono aveva sfortunatamente fatto il suo ingresso nella vita di John Lennon, e in un certo senso anche degli altri tre, mentre Brian Epstein, lo storico manager dei Beatles, ne era tristemente uscito in seguito alla sua morte, avvenuta nel ‘67.

A livello discografico, i Fab Four avevano prodotto nell’arco di sei anni con un’intensità fuori dal comune, senza mai sbagliare un colpo, plasmando se stessi per assecondare le mode del momento (mode che, in fondo, erano proprio loro a dettare) e incrementando non solo la loro popolarità, ma anche la loro credibilità di musicisti.

Nel ‘69 erano reduci dal capolavoro uscito l’anno precedente, The Beatles, più comunemente detto White Album, un disco doppio voluto in questa forma dai Beatles stessi, che non ascoltarono il consiglio di George Martin di fare un unico disco di successi, e che rappresenta appieno il momento che il gruppo stava vivendo come band. Ovvero tanti bei lavori solisti, uniti sotto un unico titolo. I quattro baronetti erano cresciuti insieme, ma adesso avevano mogli e figli, personalità più mature e le loro individualità sgomitavano per emergere.

Ma non erano gli unici ad essere cambiati in pochi anni. Il mondo intero lo era. Il boom economico degli anni ‘50 aveva lasciato spazio ai figli dei fiori e ai tumulti che la guerra del Vietnam aveva provocato, sia negli Stati Uniti, che sul campo di battaglia. Allo stesso tempo, il progresso tecnologico stava facendo passi da gigante e l’uomo aveva conquistato la Luna. Dalla famosa apparizione dei Beatles all’ Ed Sullivan Show, trasmessa in bianco e nero, si era passati ai colori dello storico concerto sul tetto degli uffici della Apple Corps, a Londra, l’ultima esibizione pubblica dei quattro di Liverpool.

John, Paul, George e Ringo si erano da allora dedicati esclusivamente alla produzione in studio, anche da solisti, e il risultato finale sono gli ultimi due dischi che suggellano una carriera strepitosa, che non avrà eguali nella storia del rock per importanza culturale e musicale.

Fui folgorata da Abbey Road all’età di dodici anni. In un periodo nel quale i miei coetanei ascoltavano i Lunapop e gli 883, scoprii, complice l’uscita della raccolta One, quello che sarebbe diventato in assoluto il mio gruppo preferito. Iniziai a farmi prestare i dischi dei Beatles dalla mia compagna di banco, che, fortunatamente, aveva alle spalle una famiglia di beatlesiani. E così nacque l’amore per Abbey Road, che personalmente considero ancora il loro miglior lavoro (non me ne vogliano i fan di Sgt. Pepper’s).

A colpirmi furono la varietà dei brani e le melodie che vanno, già dai primi due brani, dall’energia di Come Together al romanticismo di Something. In Oh! Darling, McCartney ci regala una delle sue migliori performance vocali, mentre Harrison lascia il segno con Here Comes The Sun e la già citata Something. Anche Ringo Starr trova spazio in questo disco con la divertente Octopus’ Garden, mentre Lennon, con la linea della chitarra solista di I Want You (She’s So Heavy), si aggiudicherà, negli anni a venire, il riconoscimento da parte della critica per aver scritto e suonato il primo pezzo heavy metal della storia del rock.

Pare che l’aggettivo heavy fu pronunciato dal produttore Tony Bramwell in una breve chiacchierata con Paul McCartney e fatto proprio dai Beatles nell’espressione colloquiale “it’s so heavy, man”.

Dopo bellissimi brani del calibro di You Never Give Me Your Money e She Came In Through The Bathroom Window, il disco si chiude, tralasciando i 25 secondi di Her Majesty, con quello che è conosciuto come l’Abbey Road Medley, ovvero l’unione delle tre brevi composizioni Golden Slumbers, Carry That Weight e The End. A distanza di anni ho ancora i brividi ogni volta che lo ascolto.

Inutile dire che Abbey Road sia un disco imprescindibile, caposaldo della storia della musica moderna, espressione di un rock che stava cambiando per rimanere immutato nella sua bellezza e indelebile nei decenni a venire.

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