Toto: recensione di Toto XIV – 20 aprile 2015

Toto

Toto XIV

Frontiers Records

20 marzo 2015

genere: hard rock, rock prog, pop rock

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Recensione a cura di Andrea Macao

Sono passati ormai nove anni dall’ultima fatica in studio di quello che, allo stato degli atti, potrebbe definirsi un quartetto accompagnato da turnisti di lusso del calibro di Tony Spinner, Nathan East, Mabvuto Carpenter e Amy Keys, giusto per citarne alcuni.

Nove anni da quello che, stando alle dichiarazioni di Steve Lukather e guardando ad eventi come la dipartita del mastermind David Paich, costretto a lasciare la band a causa della malattia che affliggeva la sorella, sarebbe dovuto essere l’ultimo disco dei Toto, band che da sempre si è contraddistinta per i pochi elogi che la critica ha sempre loro riservato ma che, d’altro canto, è sempre stata considerata come il collettivo di musicisti migliori del globo.

Non a caso il loro curriculum vanta, tra le numerose esperienze, un ingaggio da parte re del pop, Michael Jackson, che, sotto la guida di un’altra leggenda come Quincy Jones, ha voluto proprio i musicisti in questione per suonare sul disco più venduto di sempre, ovvero Thriller, disco a cui i nostri hanno contribuito anche come compositori: la meravigliosa Human Nature, infatti, porta la firma di Steve Porcaro.

Complice anche un problema legale con la label, la band si trova quindi costretta a dover pubblicare un nuovo disco sullo sfondo di un panorama a dir poco controverso: Mike Porcaro infatti, bassista della band dall’abbandono di David Hungate nel 1982 fino all’uscita di Falling In Between nel 2006, si spegne dopo una lunga battaglia contro la SLA, mentre Simon Phillips, colui che aveva preso il posto dietro le pelli dopo la tragica scomparsa di Jeff Porcaro nel 1992, lascia la band dopo una militanza ultraventennale.

Considerato lo scenario, Toto XIV è un disco che, nonostante le grigie premesse, rispetta assolutamente gli alti standard a cui la band da sempre ci ha abituati, un disco da cui emerge tutto lo spessore artistico di una band che, nel corso della propria carriera, non ha praticamente mai sbagliato un colpo.

Passando ora al “cast” di quella che, al momento, è (e probabilmente sarà) l’ultima fatica della band, troviamo una lineup molto vicina a quella degli esordi: recuperato David Hungate al basso, anche se come turnista, troviamo Steve Lukather alla chitarra (l’unico membro, peraltro, a essere stato presente ad ogni live del gruppo), il magico duo David Paich-Steve Porcaro, rispettivamente alle
tastiere e ai sintetizzatori e un Joseph Williams più in forma che mai dietro al microfono e che figurava già come lead voice della band in dischi del calibro di Farenheit e The Seventh One.

E dietro le pelli? A chi sarebbe stato assegnato l’infausto compito di sostituire due giganti come Jeff Porcaro e Simon Phillips? La scelta è ricaduta su Keith Carlock, già impegnato con gli Steely Dan e che, per questo motivo, lascerà la band dopo il tour promozionale del disco in favore di Shannon Forrest, rimasto come session man in pianta stabile fino all’annuncio dello scioglimento al termine del tour per celebrare il loro quarantesimo anno di attività.

Ad arricchire ulteriormente il quartetto troviamo altri illustri musicisti di supporto del calibro di Tom Scott, che presta il suo sassofono a favore di quella piccola perla che è 21 Century Blues, o di Mabvuto Carpenter, già in tour con il gruppo dal 2010 e che mette la sua ugola a disposizione per la strofa di Orphan,
primo singolo estratto dal disco e solida performance rockeggiante.

Il disco è ricco di spunti interessanti, a cominciare dall’apripista Running Out Of Time, brano di grande caratura artistica nato da una jam della band e dalle piacevoli punte fusion, ulteriormente elevato da un finissimo assolo di Lukather. A seguire troviamo Burn, prima ballad dell’album e terzo singolo, con un riff di piano coinvolgente che entra subito in testa e una dicotomia che si realizza tra strofa, caratterizzata da atmosfere morbide e levigate, e ritornello, con un Williams pronto ad esplodere in tutta la sua potenza vocale, lasciando il suo marchio in uno dei brani più ricchi di pathos del disco.

A seguire troviamo Holy War, brano più semplice e diretto, dalle tinte più rock
tipiche dei primi lavori della band (basti pensare a pezzi come Afraid Of Love o White Sister), con Lukather alla voce e un Williams che qui figura come corista e secondo singolo estratto; senza dubbio un altro centro pieno messo a segno dai Toto. La già citata 21 Century Blues, forse complici i tre capolavori che la precedono, per quanto sia un brano dalla pregevole fattura rischia quasi di passare in secondo piano, rimanendo comunque un pezzo godibilissimo, che permette all’ascoltatore di tirare il fiato e metabolizzare a dovere i primi venti minuti di ascolto.

Al giro di boa troviamo uno dei momenti più forti ed emozionanti del disco, ossia Unknown Soldier, scritto in memoria del compianto Jeff Porcaro e dotato di un impatto e di una carica emotiva che da sempre contraddistingue queste piccole gemme griffate Toto. La seconda parte del disco si presenta forse meno eclettica ma non per questo di scarsa caratura, anche se troviamo qui l’unico episodio del lavoro definibile come filler: stiamo parlando di Fortune, dalle punte fusion e dal riff di piano accattivante che, tuttavia, manca di quel mordente necessario a renderlo memorabile.

Discorso che non è invece possibile fare per The Little Things e All The Tears That Shine, ballads di una dolcezza e di una carica emotiva sopraffina in pieno stile Toto, che vedono come lead voice rispettivamente Steve Porcaro e David
Paich. A chiudere il piacevolissimo viaggio musicale che la band ha preparato troviamo Great Expectations,
vero e proprio capolavoro della durata di quasi sette minuti, un concentrato di tecnica ed eleganza che da solo vale il prezzo dell’album, un brano ricco di intrecci, dalle atmosfere più pop dell’intro, fino a giungere alle sfumature fusion della strofa e del ritornello, il tutto contornato da una sottile quanto marcata vena prog ad impreziosire il tutto.

Volendo quindi tirare le somme, Toto XIV non è sicuramente un disco “di mestiere”, come le premesse potevano far intendere, forse meno eclettico del suo predecessore ma che si mantiene
comunque su altissimi livelli, a dimostrazione che i Toto sono una delle band più versatili e valide di sempre,
ancora capaci di stupire i propri ascoltatori alla luce di una carriera che vede quattordici lavori in studio, svariati live, compilation e premi. Un lavoro che quindi non può mancare nelle collezioni dei loro fan, ma anche di chi ama buona musica.

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