Intervista a Brian K dei GarageVentiNove

I GarageVentiNove sono una indie-rock band storica dell’underground milanese e varesino. In attività dal 1991, hanno finalmente prodotto, nel 2018, il loro primo LP intitolato Il Male Banale. Ne abbiamo parlato con Brian K, fondatore nonché voce maschile del gruppo.

FOTOGRAFIE ROCK: Ciao Brian, raccontaci com’è nato il progetto GarageVentiNove.

BRIAN K: Il progetto è nato nel 1991, in quel periodo mi ero già trasferito da Milano a Bologna per studiare al DAMS, ma fui convocato a Varese per fare il servizio civile. Misi un’inserzione su di un giornale locale che recitava: “Cantante dalle molteplici esperienze, cerca gruppo valido e creativo”. Quello che inizialmente trovai furono dei gruppi di banalissimo hard rock, senza nulla togliere al genere, però io stavo cercando qualcosa che andasse oltre la cover di ‘Smoke on the Water’.

FR: Avevi un’esigenza differente.

BK: Sì, avevo bisogno di qualcuno che avesse la scintilla della creatività. Fui quindi contattato dal chitarrista Ermanno Monterisi, che insieme al bassista Claudio Fusato, a un tastierista e una drum machine, portarono le loro idee in quello che era fisicamente un garage, da cui poi prendemmo il nome per la band. Il 29 era proprio il numero del box nel quale provavamo. Oltretutto il garage è proprio connesso con le primissime forme di cultura underground.

FR: Il ‘garage’ negli anni ‘60 era quello che successivamente verrà definito come underground, o indie.

BK: Esatto, ci piacque questa connessione. Inizialmente eravamo un incrocio tra il grunge e la new wave, atmosfere che non abbiamo mai del tutto abbandonato, mantenendo un chitarrismo che in un qualche modo discende dal post-punk. Suonavamo con una drum machine, finché un giorno scoprii che un mio collega del servizio civile, Ciccio Nicolamaria, era un batterista. Così entrò nel gruppo ed è tuttora il nostro batterista. La formazione base è sempre stata la stessa, tranne per un certo periodo nel quale, per motivi familiari, dovemmo sostituire proprio il batterista con Luca Piatti, musicista con uno stile alla Jimmy Chamberlin degli Smashing Pumpkins. Con lui pubblicammo nel 2002 il nostro secondo EP, ‘Amnesia’.

FR: Il primo EP, invece, in che anno è uscito?

BK: Nel 1996 e si chiamava ‘Auto da Fé’. Nei due lavori ci sono due batteristi diversi e due stili diversi. Nel primo era presente anche un tastierista. Successivamente abbiamo colmato i vuoti lasciati dalle tastiere con le armonie della chitarra e il nostro suono si è indurito. Il periodo del nostro secondo EP è quello per cui abbiamo ricevuto più riconoscimenti, fra cui quello di Amnesty International. Altre soddisfazioni sono arrivate da Cuba, dove abbiamo avuto l’opportunità di suonare. Pensavamo che i cubani fossero molto più bravi di noi a suonare e che quindi non ci avrebbero dato credito, invece sono così oppressi dalla loro stessa musica nazionalpopolare, usata dal regime come mezzo di distrazione di massa, che accolgono con entusiasmo le novità. Siamo stati intervistati da radio e TV locali, suonavamo davanti a centinaia di persone entusiaste, quando invece a Milano difficilmente superavamo la quarantina.

FR: Cosa ne pensi del fatto di aver riscosso più successo all’estero che in patria?

BK: L’Italia è un paese strano e difficile. Durante le serate che prevedono l’alternarsi di più gruppi succede questo: mentre suona una band, sotto il palco ci sono solo gli amici e tutti gli altri sono fuori a fumare, quando va in scena il gruppo successivo il pubblico si inverte e così via. Quello che voglio dire è che, al di là della trap, non ci sono più scene musicali che riescano a coinvolgere e la gente non ascolta più, non c’è più curiosità nei confronti delle novità.

FR: All’estero sicuramente la realtà è diversa. Parliamo del vostro disco, come siete arrivati a produrre, finalmente, un LP?

BK: Circa dieci anni fa personalmente avevo preso parte ad altri progetti, perché i GarageVentiNove erano in un momento di stallo, dopo l’abbandono del secondo batterista. Uno di questi progetti si chiamava T.N.T. Cover Band, nel quale era presente una cantante, Patty. Appena mi unii al gruppo, lei si allontanò. Cercai di farla tornare, perché mi piaceva l’unione delle nostre voci, tant’è che durante una serata TNT vennero a vederci i Garage e le chiesero di fare qualche prova con la band. Nel frattempo era rientrato il nostro primo batterista e così la line up era completa. Patty aveva un background musicale molto diverso dal nostro, infatti il suo inserimento nei GarageVentiNove non fu facile, ma alla fine trovammo un equilibrio tra le due voci e riuscimmo a far funzionare la cosa. Iniziammo quindi a lavorare su ‘Il Male Banale’.

FR: Che riprende il titolo dal famoso libro di Hannah Arendt ‘La Banalità del Male’, giusto?

BK: Esatto: il libro racconta del processo tenutosi a Gerusalemme al gerarca nazista Adolf Eichmann. La banalità del male perché Eichmann era poco più di un impiegato, una persona comune, non aveva la crudeltà di un genio del male. La banalità del male è la metafora della disattenzione che mettiamo nelle cose, che diventano foriere di cattivi effetti, spesso al di là della nostra consapevolezza. Anche noi, quando subiamo delle piccole ingiustizie, non abbiamo dei veri nemici davanti a noi ma delle persone indifferenti e mediocri, che, cercando a loro volta di barcamenarsi in questa società che sta andando a rotoli, non si rendono conto di diffondere i tanti piccoli dolori di questa realtà. I brani del disco sono stati assemblati proprio tenendo in considerazione questo concetto. 

FR: Una sorta di concept album.

BK: Sì, a livello di testi lo è sicuramente. Comunque è piaciuto a Marcello Venditti della Overdub Recordings, che ha deciso di editarlo.

FR: Le atmosfere del disco, nel raccontare un tema del genere, sono piuttosto cupe, com’è giusto che sia.

BR: Non siamo mai stati un gruppo di allegroni, quindi non è stato difficile trovare i brani giusti per il disco, anche fra quelli che avevamo già scritto con il precedente batterista. C’è un pezzo, ‘Unwise Gods’, che è una delle nostre prime canzoni, composta a metà degli anni ‘90, che però non era mai stata incisa. Parla delle piccole contraddizioni di cui vive l’uomo post industriale, la cui ricerca del lavoro gli impedisce di avere una vita emotiva completa, la cui ricerca di un partner gli impedisce di avere una vita spirituale completa, la cui ricerca di una spiritualità alternativa gli impedisce di trovare un lavoro stabile. Alla fine è una ricerca del tutto, per poi trovare il nulla. L’uomo moderno è prigioniero di una frenesia inconcludente. All’epoca componemmo il brano quasi deridendo questo archetipo, ma col passare degli anni ci siamo trovati quasi tutti ad incarnarlo appieno. Viviamo tutti in questa perenne ricerca, che è uno dei simboli del male banale, un male di inseguimenti frustrati e di difficoltà a focalizzarci su quello che veramente ci interessa. La domanda inquietante sullo sfondo resta “cui prodest?”, ovvero a chi conviene una situazione così?

FR: Il disco, non a caso, poggia su questo noise rock, su questi rumori di fondo, che, insieme all’elettronica, pervadono tutti i brani. Chi si occupa delle tastiere?

BK: Le suoniamo sia io che Patty, ma molte delle parti di tastiera sono composte da Ciccio (il batterista). Abbiamo cercato comunque di inserire l’elettronica in modo poco invasivo.

FR: Ascoltando l’album, soprattutto i primi brani, si percepiscono delle atmosfere anni ‘80. Qualcosa di simile ai Diaframma dei primi ‘80.

BK: [ride] Una volta un giornalista del magazine ‘Rumore’, Stefano Morelli, ci definì ‘Diaframma evoluti’.

FR: Come dicevamo, l’album è pervaso da atmosfere cupe e decadenti, da un dark ambient influenzato da Dead Can Dance, Sonic Youth, Bauhaus, PJ Harvey.

BK: Anche Nick Cave, visto che avete citato PJ Harvey.

FR: Il brano ‘Kali Yuga’ ricorda anche gli Smashing Pumpkins, i Ritmo Tribale, i The Sound. Cosa significa ‘Kali Yuga’?

BK: Il Kali Yuga è l’ultimo periodo del giorno cosmico, secondo le dottrine dei cicli cosmici hindu. Sostanzialmente è la notte, quando tutto finisce, perché tutto deve ricominciare. La notte cosmica è il crollo di un’epoca, nel senso proprio del materialismo, di un macroperiodo strutturato in una serie di ‘Yuga’. ‘Yuga’ vuol dire periodo, ‘Kali’ si riferisce alla dea, messaggera di morte e distruzione, quindi il periodo di Kali è quello nel quale c’è un rinnovamento attraverso la distruzione e la fine, più o meno cruenta, di ciò che c’era stato prima. Tutto ciò crediamo rappresenti un po’ il periodo attuale, nel quale cerchiamo di andare avanti come comunità globale, di evolverci e invece assistiamo impotenti alla parcellizzazione di tutto: valori, averi, ideali, sentimenti…

FR: ‘Down the River’, invece, di cosa parla?

BK: Parla di un apporto – che può essere culturale, energetico o fors’anche spirituale – che viene dall’esterno, come il fiume, che porta un’acqua che non appartiene ad un territorio eppure lo nutre. È il brano più oscuro del disco, quello che ricorda più le atmosfere dei Dead Can Dance. Qui dobbiamo ringraziare Phil Liar della Karma Conspiracy, che ha fatto un ottimo lavoro col missaggio del disco, portando delle idee davvero interessanti, credendo nel nostro progetto in maniera disinteressata, spinto solo dalla passione per la musica. Gli echi sulla voce femminile, ad esempio, sono stati un suo contributo ed hanno dato a questo brano un’atmosfera ancora più delirante e alla deriva. Siamo veramente grati a Phil Liar per il suo lavoro, per il suo entusiasmo e per la sua capacità di ascolto, che è ciò che manca oggi in Italia. Siamo talmente bombardati dalle più diverse proposte, che quasi nessuno ha voglia di ascoltarne una in più.

FR: Bisognerebbe andare a cercare oltre la superficie e scavare nell’abisso, come diceva Fiumani.

BK: Sì, perché poi l’abisso è lo specchio che vogliamo vedere meno, ma che è anche quello più sincero. Finché ci specchiamo truccati e sistemati, ci piacciamo. Un po’ come su Facebook, siamo tutti dei trucchi virtuali. Quando però ci specchiamo nel profondo, laddove non ci sono più maschere, viene fuori una realtà che ci disturba, che non tutti siamo in grado di voler vedere. Noi che abbiamo scelto di appartenere a quest’area abbiamo incontrato infatti diverse difficoltà. I discografici preferiscono un’indie pop più allegro, con dei testi che spesso sono pieni di parole dall’aria intellettuale. Molti dei gruppetti di oggi sono bravi a mescolare le parole nel cappello, come diceva il buon Vecchioni, e danno questo senso d’intellettuale che in realtà è un ‘allegrotto’ un po’ amarognolo. Andare a girare il coltello nella piaga, come facciamo noi, può risultare disturbante e dare fastidio.

FR: Ci capita di ascoltare molti gruppi emergenti del panorama rock italiano. Cantano quasi tutti brani scritti in lingua inglese. Voi alternate l’italiano all’inglese. Come mai questa scelta?

BK: Scrivere un testo in italiano e farlo bene non è semplice. Per quanto riguarda noi, quando iniziammo nel ‘91, tutti i gruppi scrivevano pezzi in inglese. Era un po’ passata la moda dei Litfiba e per reazione a quei gruppi storici degli anni ‘80, fra cui anche i Diaframma e i CCCP, era nata questa tendenza dei testi in inglese. Per esempio gli Afterhours fecero i loro primi dischi in inglese. Anche noi abbiamo iniziato così, ma presto ci rendemmo conto che era un limite ed essendo italiani provammo a scrivere qualcosa nella nostra lingua madre. Così abbiamo continuato a fare negli anni 2000, proponendo nel secondo EP solo brani in italiano. Anche questa scelta, però, ci sembrò limitante. Già l’arte è limitata dalle nostre capacità, imporsi ulteriori restrizioni è assurdo. La canzone ha una sua vita autonoma, abbiamo deciso di non castrare l’opera in sé: se una canzone ci viene in italiano la facciamo in italiano, se invece nasce in inglese la lasciamo così per non snaturarla, e così in futuro per il francese, lo spagnolo o qualunque lingua ci ispiri. 

FR: Un giusto compromesso.

BK: Una sorta di auto indisciplina, che però diventa disciplina nel momento in cui esiste il rispetto per l’opera nel suo spirito originario.

FR: ‘(Precipizio in) Clessidra’ è un altro dei brani del disco. Ce ne vuoi parlare?

BK: È un brano con una tematica molto strana, ovvero: vivi il tuo presente, nella misura in cui è vivente. Nella clessidra la parte bassa è il passato, la parte alta è il futuro, mentre il precipizio è l’inafferrabile presente. Nella canzone questa tematica viene trattata in una prospettiva di rapporto con l’altro, che alla fine è una metafora del rapporto con se stessi, forse addirittura con quella parte di noi stessi con cui non possiamo comunicare. Quando riusciamo a vivere il nostro presente nel rapporto con noi stessi, raggiungiamo una completezza del vivere che altrimenti non abbiamo, dispersa nel ‘Kali Yuga’ o nell’adorazione di falsi dei di ‘Unwise Gods’. ‘(Precipizio in) Clessidra’ è, forse insieme a ‘Down the River’, il brano che fra tutti ha più una morale positiva, un messaggio di speranza, un’indicazione almeno ipotetica di soluzione al problema, quando gli altri pezzi tendono invece a descriverlo.

FR: Grazie mille Brian, invitiamo tutti i nostri lettori all’ascolto di questo bel disco, ‘Il Male Banale’. E visto ciò che ci siamo detti, in bocca al lupo non tanto per il vostro futuro, quanto per il vostro presente.

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