Intervista al cantautore An Early Bird

Abbiamo intervistato Stefano De Stefano, in arte An Early Bird, cantautore napoletano trapiantato da alcuni anni a Milano.
Il 2 ottobre è uscito il suo nuovo disco, Echoes of Unspoken Words, già recensito da Fotografie ROCK a questo link.
Ciao Stefano, come stai?

Bene grazie, stavo ascoltando un po’ di Springsteen, mentre ragionavo sulla situazione dei live a Milano in tempo di Covid.

Un bello scoglio in questo periodo storico.

Vorrei capire se si potrà fare la data di presentazione del disco a Milano, prima o poi. Speriamo bene. Per il momento mi concentro sul digitale.

Come tutti in questo periodo, sia gli artisti che gli utenti.

Purtroppo, ad oggi, non è possibile intraprendere un tour. Comunque ultimamente sto cercando di gestire meglio la questione Covid a livello psicologico. Mi sto tenendo occupato facendo la rassegna stampa delle recensioni che ho ricevuto e lavorando su alcune novità.

Come è stato accolto il nuovo album dalla critica?

Sono contento che si stia dando spazio a questo disco e che i giudizi siano tutti positivi. D’altronde io stesso arrivo dal giornalismo musicale e quindi sono molto interessato alle recensioni. Mi piace comprare ancora riviste musicali cartacee, anche se purtroppo non ce ne sono più tante come una volta.

Rispetto a qualche anno fa, come è cambiato Stefano e da dove nasce lo pseudonimo An Early Bird?

Venivo da dieci anni di musica con una band che si chiamava Pipers, nata a Napoli ai tempi del primo MySpace. In quei dieci anni abbiamo fatto tre dischi, suonando anche con nomi importanti come Turin Brakes, Starsailor, The Charlatans, Ian Brown. Andammo anche in tour in Inghilterra con gli Ocean Colour Scene, nel Merseyside. I nostri pezzi venivano passati su Virgin Radio, fu un bel periodo. All’epoca credevo di poter dare ancora più spazio alla mia attività musicale. Poi arrivò il trasferimento a Milano, che fu necessario per dare una continuità ai miei progetti lavorativi e seguire un master in musica.

Com’è stato l’impatto con una città come Milano?

Buono, mi ci sono trovato bene fin da subito e col senno di poi avrei dovuto avere l’acume di trasferirmi prima, ma all’epoca avevo della reticenza legata al fatto di lasciare la città di Napoli, le amicizie e la band, con cui infatti fu difficile proseguire a distanza. A quel punto decisi di far nascere il mio progetto solista, anche perché ero reduce da alcune soddisfacenti date europee fatte da solo. Lo pseudonimo An Early Bird è nato pensando a quegli uccellini che ascoltiamo, volenti o nolenti, tutte le mattine appena svegli. È un’immagine poetica e rilassante, perché alla fine, anche se vorremmo rimanere a dormire, quegli uccellini ci accompagnano verso una nuova giornata. È un po’ la metafora di un nuovo inizio, di una nuova pagina della mia carriera.

In questi due anni ti sei dato da fare, tra pubblicazioni e concerti.

Sì, due anni fa ho pubblicato il mio primo disco e successivamente ho fatto parecchie date live in tutta Europa fino a prima che arrivasse il Covid.

Nel frattempo c’è stato l’Ep In Depths ed ora questa nuova release. Abbiamo notato che i tuoi lavori escono tutti in autunno, c’è un motivo particolare?

L’autunno è sicuramente la stagione che preferisco, ma al di là di questo c’è una ragione pratica. Nel momento in cui faccio uscire un disco, programmo anche le date del tour e considerato che la mia musica si presta meno agli eventi estivi all’aperto, come i festival, è da novembre in poi che comincia il periodo migliore per proporre la mia musica, che definirei invernale, adatta ai concerti al chiuso.

Ti piace, quindi, uscire sulla scia dei tormentoni estivi, dando il cambio al reggaeton.

In realtà ho avuto un singolo che è andato piuttosto bene anche quest’estate, alla faccia dei tormentoni, che è Racing Hearts. Ha ottenuto un buon numero di riproduzioni su Spotify.

Una canzone, per riuscire ad ottenere successo sulle piattaforme digitali, deve essere ruffiana?

Sì e no. Se uno ha qualcosa da dire e sa comunicarlo in un modo fresco e attuale, così da raggiungere anche un ascoltatore un po’ distratto, è un conto.
L’essere ruffiano, invece, seguendo solo le mode del momento, senza comunicare nulla, è una cosa che non mi appartiene e che non riuscirei mai a fare. Comunque credo che non sia giusto lasciarsi condizionare troppo da quelle che sono le regole dell’ascolto in streaming, pur tenendo conto di alcuni accorgimenti. Ad esempio, ho notato che le tracce meno ascoltate di un album rilasciato in digitale sono le ultime, perché il livello di attenzione dell’ascoltatore, dopo qualche brano, va a scemare. Così ho capito che è più logico inserire i pezzi già usciti come singoli alla fine della tracklist, per consentire a quelli non ancora pubblicati, di avere più visibilità. In questo senso, sì, bisogna essere ruffiani.

Saper usare bene gli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione è un’arma in più.

Diciamo che è importante studiare il proprio target di ascoltatori, al fine di poterli raggiungere in maniera più efficace e ciò non significa fare necessariamente la canzone orecchiabile, con il ritornello banale. Viceversa, se volessimo fare musica solo per noi stessi, non avrebbe nemmeno senso inserirsi nel mercato.Sovente ci troviamo a disquisire sul significato del termine ‘pop’, che viene spesso visto con un’accezione negativa, ma che secondo noi è semplicemente l’abbreviazione di ‘popolare’. Tu cosa ne pensi?

Sono d’accordo, il termine ‘pop’ non indica automaticamente qualcosa di scadente. Quello che non mi piace è il pop estremamente commerciale, come il pezzo estivo della Amoroso, che mi diverto a chiamare ‘Karaoke Guantanamo’ per i crimini commessi verso le nostre orecchie nei mesi scorsi.

Non bisogna poi confondere pop, con commerciale e radiofonico, che sono tre cose diverse.

Certo, ci sono anche tante belle cose, tra quelle che finiscono in radio; ad esempio l’altro giorno ho scoperto Sasha Sloan: una cantautrice che pensavo fosse solo un idolo per ragazzini e che invece ha fatto un bellissimo disco. Pur essendo più pop di Taylor Swift, ascoltando l’album ci si accorge di quanto sia spontaneo e non studiato a tavolino.

Parlando invece del tuo disco, Echoes of Unspoken Words, quanto hanno inciso, nella stesura delle canzoni, le tue influenze musicali?

In questo disco c’è sicuramente l’influenza di Glen Hansard, che probabilmente non si sente tanto nelle canzoni, quanto nell’accordatura che ho usato, che è aperta, nel suo stile. La veste sonora dell’album risente anche di alcune scelte che sono state fatte in fase di produzione. Questo è il secondo disco che pubblico con i ragazzi del Faro, uno studio di registrazione vicino Varese. Loro hanno gusti musicali probabilmente molto diversi dai miei, ma sono riusciti a non snaturare la mia scrittura, aiutandomi, nello stesso tempo, ad ampliare il mio ventaglio di arrangiamenti. Il primo pezzo, Declaraton of Life, ad esempio, era nato come una ballata folk standard; in fase di produzione è diventato qualcosa di diverso e, secondo me, molto interessante. Talk to Strangers, invece, è rimasta abbastanza simile a come era nata. Tornando alle influenze, ho provato a separarmi da quelle che sono state le mie maggiori fonti d’ispirazione, ovvero i Beatles, Damien Rice, Noah Gundersen, Glen Hansard appunto e altri che appartengono al mondo del folk rock. Ai tempi dei Pipers ero, invece, più orientato sulla musica anglosassone.

La sensibilità brit, però, è rimasta.

Eh, ma io ascolto gli Oasis da quando avevo 16 anni, mi hanno formato, perciò non andranno mai via.

Negli anni ‘90 gli Oasis spopolavano, era quasi impossibile non farsi coinvolgere, anche solo marginalmente.

Ci sono stati artisti che hanno influenzato tantissimo tutte le generazioni che sono venute dopo. L’altro giorno riascoltavo il primo disco di Battisti e mi sono un po’ depresso pensando alla musica che ci circonda oggi…

Sicuramente nel panorama underground moderno ci sono un sacco di artisti validi, ma quelli che poi raggiungono il mainstream sono veramente pochi e spesso non sono neanche i migliori.

Io sono molto curioso e mi piace guardarmi intorno, soprattutto nella scena italiana; mi piace capire in che direzione sta andando la musica. Negli ultimi mesi ho notato un calo drastico nella qualità delle nuove uscite, anche solo rispetto a qualche anno fa. Adesso è tutto uguale, trovi vocoder, melodyne e un misto di pop e trap ovunque. Per cui uno come Gregorio Sanchez, che fa un cantautorato pop molto raffinato, è oro, se paragonato al resto.

Hai mai preso in considerazione l’idea di fare dei pezzi in italiano?

Diciamo che sto lavorando a qualcosa di nuovo e potrebbero esserci anche dei pezzi in italiano all’orizzonte. L’italiano è sicuramente una sfida, perché è la mia lingua madre, ma non è la mia prima lingua a livello di scrittura. Anche negli arrangiamenti, i pezzi scritti nella nostra lingua, una volta che incisi, suonano veramente tanto italiani.

Un po’ troppo italiani, come direbbe Stanis La Rochelle.

Sì, per me è difficile, però ci sto provando, in parte perché vorrei abbattere questo paletto che mi ero autoimposto, nella convinzione che la lingua inglese potesse aprirmi anche delle strade internazionali, come effettivamente è stato, e in parte per arrivare di più alla gente, visto che in Italia non tutti masticano l’inglese.Pensi che Echoes of Unspoken Words possa essere un nuovo punto di partenza per le tue composizioni?

Diciamo che sto andando verso una direzione un po’ più synth folk e pezzi come One Kiss Broke The Promise o Fire Escape si possono considerare delle anticipazioni di quello che è il percorso che ho intrapreso negli ultimi tempi.

Non possiamo svelare altro, lasciamo un po’ di suspance, giusto?

Vi anticipo solo che a breve uscirà un mio nuovo singolo.

E noi non vediamo l’ora di ascoltarlo. Grazie mille Stefano.

Grazie a voi.

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