The Cure
Disintegration
Fiction Records/Elektra Records
2 maggio 1989
genere: dark, new wave, gothic rock
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Recensione a cura di Andrea Macao
Ci troviamo nel 1989, anno che per la band in questione si rivela essere come uno dei più cruciali della propria carriera; sì, perché Robert Smith e soci hanno deciso di optare per un cambio di rotta, o forse sarebbe meglio parlare di un ampliamento, perché parte delle sonorità prettamente dark che da sempre caratterizzavano il “trio dei ragazzi immaginari”, ora ampliato a quintetto e reduce del licenziamento di Lol Tolhurst proprio nel bel mezzo della composizione del disco in favore di Roger O’ Donnell, viene sacrificata
in favore di un’elevazione artistica più matura e consapevole, ferme restando le sonorità tipiche ma includendo trame più complesse e ricercate all’interno delle composizioni.
Ma non è corretto nemmeno parlare di svolta pop, visto che la band aveva già cominciato a strizzare l’occhio al genere in questione già qualche anno prima: con Disintegration il quintetto ci propone un concept album complesso e ricercato, dalle sfumature ampie e variegate, un vero e proprio viaggio musicale che suscita svariate emozioni a chi lo intraprende.
Lo si può comprendere fin dai primi minuti di ascolto: Plainsong, infatti, è un brano dalle atmosfere marziali e pompose, chiamato quasi a dare un solenne benvenuto all’ascoltatore, cui segue Pictures Of You, dove i già citati innesti pop, combinati a malinconia e nostalgia, assumono un ruolo di maggior rilievo, nonostante si tratti di un pezzo della durata di circa sette minuti e quindi ben lontano da quell’immediatezza tipica del genere; unico neo della traccia, una intro forse un po’ troppo lunga nonché ridondante, anche se l’attesa è ampiamente ripagata dal cantato struggente di Robert Smith che ci catapulta subito in un’altra dimensione, assieme alle molteplici stratificazioni messe insieme dal reparto tastiere.
Con Closedown facciamo un piccolo passo indietro, ritornando con la mente alla opener, seppur mantenendo un
certo distacco, perché il pezzo in questione è ancora più carico di pathos e caratterizzato da un costante crescendo che trova il suo apice nel finale, stilema che verrà adottato con successo da svariate band venute dopo (qualcuno ha detto 65daysofstatic?).
A questo punto, la band, anche a fronte di un inizio molto gradevole ma innegabilmente macchinoso, inizia a spingere sull’acceleratore e ci regala quella piccola perla che è Lovesong, portando una ventata d’aria fresca e addentrandosi in sonorità e arrangiamenti che ricordano quella formula così efficace adottata dai Roxy Music qualche anno prima, con risultati eccellenti: il brano, infatti, diventerà uno dei maggiori successi della band, insieme a tutto il resto del disco.
Ma non è finita: quasi come se ci si trovasse su un rollercoaster, l’atmosfera torna a farsi pesante con Last Dance, composizione diametralmente opposta a quella che la precede, sia in termini di testo che in termini di suoni. Le sonorità psichedeliche perfettamente combinate alle radici post punk e il costante senso di dannazione che trasuda per tutta la durata del brano tornano a caricare quella mai sopita vena malinconica che è il marchio di fabbrica dei nostri.
A seguire troviamo il singolo Lullaby, di più immediata e facile accessibilità, ma che forse rischia diventare il cosiddetto “pesce fuor d’acqua”, in quanto parecchio distaccato dal mood che
l’opera invece trasmette, recuperato invece dalla successiva Fascination Street, dove la band torna a tirare fuori gli artigli con un riff di basso in primo piano e una batteria decisamente più trainante.
La seguente Prayers For Rain non è certamente da meno in termini di incisività, le tastiere che vanno a recuperare, con le loro risposte alla voce di Robert Smith, quei toni sontuosi e solenni che già abbiamo incontrato nella prima parte del disco.
Riflessione a parte invece merita The Same Deep Water As You, che si prende a pieni voti il titolo di brano più struggente, malinconico e logorante di tutto l’album. Il sottile crescendo delle tastiere, il delicato cantato e le sonorità più cupe che mai portano la mente dell’ascoltatore su uno scenario grigio e
piovoso, rendendo quindi perfetto il compito assegnato a intro e outro, facendo germogliare un senso di
vuoto e di abbandono che, tuttavia, rendono il brano ancora più affascinante e raffinato, elevandolo a quello
che si potrebbe definire il capolavoro di questo LP.
Con la title track si torna ad aumentare i bpm, con un profondo contrasto che si realizza tra l’incalzante sezione ritmica e una parte di voce dalle sfumature sconvolgenti quanto rassegnate, realizzando un quadro perfetto di quel tormento interiore e dannazione che è
elemento pregnante dell’intero lavoro.
Per quanto concerne l’epilogo, la band torna a farci riflettere e a viaggiare con due brani di pregevolissima fattura, ossia Homesick, ballata dolcissima quanto travolgente e Untitled, brano con cui viene definitivamente confermata la consapevolezza del fallimento, ma da cui
traspare anche un flebile senso di serenità, uno sguardo aperto verso un futuro più incerto che mai e che, quindi, potrà offrire svariate opportunità.
Ora, preso atto che Disintegration venne accolto come una scommessa, e considerata la scarsa fiducia della label, i Cure hanno tuttavia dato alla luce un capolavoro senza tempo, un’opera che, pur necessitando di diversi ascolti prima di essere assaporata in ogni suo dettaglio, è destinata a diventare un inno all’amore per chi non smette di amare, ma che al tempo stesso è consapevole del proprio passato, cui volge spesso uno sguardo malinconico.
Formazione:
Robert Smith – voce, chitarra e tastiera
Simon Gallup – basso e tastiera
Boris Williams – batteria
Porl Thompson – chitarra
Roger O’Donnell – tastiera
Laurence Tolhurst – strumenti vari
Tracklist:
1. Plainsong
2. Pictures of You
3. Closedown
4. Lovesong
5. Last Dance
6. Lullaby
7. Fascination Street
8. Prayers for Rain
9. The Same Deep Water as You
10. Disintegration
11. Homesick
12. Untitled
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