Arab Strap: recensione di As Days Get Dark

Arab Strap

As Days Get Dark

Rock Action/Best & Fairest

5 marzo 2021

genere: folk, elettronica, new wave, darkwave, goth wave, post-punk, synth wave, post-rock, disco dance, jazz, slowcore

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

A distanza di ben 16 anni dal precedente lavoro in studio The Last Romance e ad un quarto di secolo dall’esordio con The Week Never Starts Round Here, il duo post-punk scozzese Arab Strap torna sulle scene musicali con il suo settimo album intitolato As Days Get Dark, edito per Rock Action/Best & Fairest e anticipato dall’uscita dei singoli Compersion Pt.1 e The Turning Of Our Bones.

La “nuova era oscura” di cui parlavano i The Sound (già quarant’anni fa, nel brano New Dark Age contenuto nel disco From The Lion’s Mouth) sembra essere tornata in vita, come i morti viventi di Wes Craven, come ogni cosa che prima o poi, ciclicamente, torna dal passato a smuovere il sottosuolo epidermico dei nostri abissi emozionali, come una brace sopita che non aspetta altro che essere risvegliata e rigenerata.

“Nei tempi bui si sentono le paure più oscure, e dai posti più sicuri arrivano le parole più coraggiose. Alcuni conducono una vita tranquilla per tenere a bada questo vecchio mondo spaventato, i cani stanno ululando fuori per strada, quindi c’è chi chiude le tende sperando che se ne vadano”. Con questi versi, Adrian Borland aveva cercato di dare voce alle fragilità derivanti dalla sua diagnosticata instabilità, al suo consumato senso di inadeguatezza nei confronti della realtà circostante, nell’intenzione di portare a galla le contraddizioni e l’ambiguità dell’animo umano, con tutte quelle alienanti conseguenze che non fanno che generare iconologie personali completamente fuori controllo. Ripensandoci oggi, quanto risultano attuali quelle parole…

A causa della pandemia, sebbene fosse così anche già prima dell’era covid, ci siamo ritrovati catapultati all’interno di una centrifuga emotiva senza precedenti, in mezzo a storie di dolore, squallore, paradossi e ossimori viventi, accerchiati da voyeurismo perverso, politically correct, sovraesposizione digitale e repressioni sessuali. Uno sconfinato ecosistema sociale polarizzato tra ciò che è reale e ciò che è finzione, composto da individui senza più equilibrio psicofisico, senza la benché minima manifestazione di empatia e sempre più assuefatti alla logica degli estremismi ideologici, tra disagio e vizi, tra bellezza e disperazione.

Un parossismo umanistico che il duo originario di Falkirk, composto da Aidan Moffat e Malcolm Middleton, ha cercato di raccontare nell’unico modo che conosce: rimescolando stati d’animo e patologie, scavando negli angoli nascosti dell’esistenza, rintracciando una possibile intersezione tra sconforto e idillio, pitturando di humor nero le assurde curvature cromatiche delle nostre esistenze e mitigando le ansie del giorno e la brutalità di certe forme d’intrattenimento con il flusso di coscienza che scaturisce dai silenzi analgesici della notte.

Legandosi al laccio emostatico della disillusione ed ai morsi della malinconia, gli Arab Strap mettono insieme undici tracce dal fascino decadente, seducente, mefistofelico e magnetico, seguendo costantemente narrazioni parallele, come sliding doors, e un saliscendi emozionale che brucia lentamente da ambo i lati; quando con ispirazione autobiografica, quando servendosi di metafore epidurali, come quella descritta nel brano Fable Of Urban Fox, in cui le volpi, costrette ad abbandonare le campagne per trasferirsi nelle città per sopravvivere alla caccia dell’uomo, vengono demonizzate e trattate come appestate.

Con As Days Get Dark, gli Arab Strap riescono a fotografare realtà scomode e surreali, abusando dell’oscurità quale musa ispiratrice e condensando ogni fotogramma sotto il peso greve di atmosfere cupe e notturne di rimando darkwave anni ’80, avvolgendo ogni episodio in una profonda e confidenziale poetica sing & speak alla Leonard Cohen, con l’intensità tormentata del connazionale Paul Buchanan e la tensione onirica trasmessa da sezioni d’archi sintetiche e melodiche, andando a scomodare il ricordo di quelle atmosfere orchestrali che rimandano ai Beatles di Eleanor Rigby, allo Stevie Wonder di Pastime Paradise e ai Cure di Lullaby.

Un patchwork sonoro che, contorcendosi in danze dionisiache e abbandonandosi all’ebbrezza alcolica della mondanità, si condisce di refrain e riff accattivanti di memoria new wave, tra note arpeggiate di chitarra, quando dolcemente bucoliche (Bluebird), quando inquietanti e carpenteriane (The Turning Of Our Bones), ritmiche enigmatiche cullate dai sintetizzatori e gommose percussioni eurodisco alla New Order, che si mescolano a foschie R&B metropolitane (Sleeper) e alle fumosità morfinose del jazz, fino ad illuminare lo smarrimento degli eccessi notturni con la luce penetrante del sax e con melodie folk sadomaso dal taglio sia vintage che contemporaneo.

L’essenza tematica di As Days Get Dark, nella sue lugubri ambientazioni esistenziali, si riassume nella solitudine dell’essere umano moderno, attraverso le distanze (non solo fisiche) generate dall’era di internet: un nuovo scenario che mette in risalto la criticità etica delle relazioni interpersonali, in balìa delle infinite connessioni e di superego virtuali: non parliamo con nessuno e al tempo stesso parliamo con tutti, interagiamo con identità iconizzate e rinchiuse nelle finestre digitali dei circuiti informatici, finendo per affidare le nostre azioni a divinità immaginarie, cercando di giustificare i nostri comportamenti dissociativi e la nostra condotta immorale.

Evidenziando il disagio cognitivo di chi vive sui social media, quando la semplice curiosità si trasforma in pericolosa dipendenza, non ci resta che nascondere gli avanzi del nostro passaggio sotto la polvere del tempo, rassegnati agli echi della nostalgia e omologati alla tristezza di quei sogni tumulati nelle bugie del passato e alla disillusione dei sogni ad occhi aperti del presente. D’altronde, gli stessi Arab Strap, conservando un ammirevole sentimento filantropico, iniziano questo nuovo capitolo discografico con la seguente frase: “I don’t give up about the past, our glory days gone by”.

A volte basterebbe così poco per andare avanti, anche soltanto una piccola dose di gentilezza per medicare le ferite, prevenire le crisi d’identità e curare quel genere di cecità che Saramago raccontava nei suoi romanzi. Che poi, alla fine, viene da chiedersi: esiste davvero qualcuno ancora interessato alle nostre mezze verità, alle nostre menzogne e alla nostra natura così demenziale e miserabile? Nel frattempo, galleggiando tra la forza della carne e la debolezza dello spirito, inganniamo le attese nelle nostre stanze, nei nostri letti, nei nostri cuori e nelle nostre teste, contando le pillole, i rimpianti, le rughe, il ticchettio di un vecchio orologio e quei ricordi a bassa risoluzione sepolti in cartelle dentro altre cartelle.

Membri della band:

Aidan Moffat: voce

Malcolm Middleton: voce, chitarra, elettronica, basso, pianoforte, sax

Tracklist:

1. The Turning Of Our Bones

2. Another Clockwork Day

3. Compersion Pt.1

4. Bluebird

5. Kababylon

6. Tears On Tour

7. Here Come Comus!

8. Fable Of Urban Fox

9. I Was Once A Weak Man

10. Sleeper

11. Just Enough

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