Category 7: recensione di Category 7

Category 7

Category 7

Metal blade records

26 Luglio 2024

genere: power metal, thrash metal _______________

Recensione a cura di Marco Calvarese

Talora il male arriva quando meno te lo aspetti, proprio quando abbassi la guardia e sei più in fiducia.
Category 7 è l’LP omonimo della freschissima combo messa in piedi da musicisti di formazione Anthrax, Overkill e Machine Head, tanto per citare i brand più in vista.

Nel leggere i nomi dei componenti di questo super gruppo mi sono venute le vertigini e mi sono subito buttato a capofitto nell’acquisto, convinto di rendere ancor più ricco il mio bottino musicale del 2024. Purtroppo, si sa, la delusione è direttamente proporzionale alle attese e stavolta ci ho sbattuto i denti e ancora sanguino.

Veniamo al dunque. Bush e soci ci propongono un genere di difficile definizione; per capirci lo inquadrerei come un power metal screziato di elementi alternativi molto duri, al punto da sconfinare nel thrash. Fin qui, leggendo la line-up, sembra la scoperta dell’acqua calda.

Il fatto è che, per proporre un album fresco e coinvolgente in un mercato un po’ stagnante e saturo come quello del power, occorrerebbero una linea e degli obiettivi ben definiti, ispirazione e orgoglio da vendere, un riff generator vario e qualità armoniche non indifferenti. Potenzialmente qui c’è tanta roba, ma il risultato è un po’ caotico. È come se tutti gli ingredienti giusti fossero stati versati nella ciotola, ma in quantità un po’ casuali e poi amalgamati in modo inadeguato. E l’impasto è stato messo in cottura a temperatura e con tempi sbagliati.

Ecco che, pur essendo la materia prima di eccellente qualità, l’effetto sul palato sarà difforme alle attese, disomogeneo.
Nome della band e cover dell’album lasciano pochi dubbi su ciò che i cinque artisti vorrebbero proporre ma, più che la potenza distruttiva, è il caos casuale della tempesta ad essere reso nel disco.

E questo coinvolge ogni aspetto del sound: riffing non esaltante, batteria invadente al punto da sembrare uno sfogo personale o uno sfoggio di muscoli da parte del pur superlativo Bittner, linee vocali non banali ma verbose, talora troppo sdraiate sulle note delle chitarre e altre volte un po’ forzate (infatti si respira a pieni polmoni nella closer strumentale Etter Stormen, davvero evocativa ed ispirata).

Buon’ultima, ma non per rilevanza, una produzione non all’altezza, che non fa altro che amplificare la sensazione di disordine, sovraesponendo la voce, riducendo a una miscela indistinta la sessione ritmica durante gli assoli e sovente costringendo il mio povero apparato uditivo ad uno sforzo di concentrazione per percepire il main riff della chitarra ritmica.

Da tutto questo emerge il paradigma della bella incompiuta: potenza e velocità, quante ne volete, ma sound e arrangiamenti a dir poco discutibili. È come se questi veterani fossero stati costretti a lavorare insieme, o fossero immiscelabili come l’olio con l’acqua.
Basterebbe l’ascolto della opening track In Stitches per trovare conferma di quanto detto finora ma, procedendo con l’ascolto, sia pure tra alti e bassi, la sensazione non cambia.

Tracce come Runaway Truck o White Flags And Bayonets lasciano null’altro che amaro in bocca e rabbia, perché mostrano spunti tecnici notevoli e, con una miglior definizione sonora e un po’ più di ordine armonico, avrebbero potuto decollare. Vi sono, invece, episodi che sembrano farlo, come le thrasheggianti e vagamente maideniane Land I Used to Love o, ancor più, Through Pink Eyes, dove finalmente si indovina un’armonia tra riff e batteria, ma la ripetitività, e soprattutto l’onnipresenza del cantato, tarpano loro le ali e si fa fatica a percepire altro che non siano, appunto, la voce (o la prima chitarra negli assoli) e la doppia cassa.

Non me ne voglia John Bush, mal digerisco la sua epoca agli Anthrax, è vero, ma questo non significa niente: lui è bravissimo tecnicamente, ma proprio non riesco a farmi piacere le sue melodie. Altri momenti mostrano buoni spunti, come Apple Of Discord, con un intro potentissimo stile Painkiller, ma che poi si perde strada facendo nella prolissità, per quanto certi passaggi e lo speed centrale possano riportare alla memoria certi (scopro di nuovo l’acqua calda) Armored Saint.

Spunta, poi, ormai inaspettata, un piccola perla di nome Exhausted in cui, sprigionando una rabbia di sapore Overkill, finalmente si ha la sensazione che il potenziale dei Category 7 possa esprimersi appieno, ma resta senza seguito, perché subito tornano a dominare magma sonoro, ritmica ovattata e una batteria che dà la sgradevole sensazione di una perizia tecnica completamente slegata dall’anima del brano, che finisce per perdere dinamicità, invece di acquistarne. Come in Mousetrap, ad esempio, senza contare Waver At The Breaking Point, in cui i Nostri sembrano divertirsi a portare tutti i difetti dell’album alle loro estreme conseguenze.

D’accordo, c’è molta carne al fuoco e il pogo è assicurato, ma da musicisti di questo spessore mi sarei aspettato la capacità di incanalare tanta potenza di fuoco in una direzione ben precisa. Invece, anche dopo essermi costretto a più ascolti consecutivi, mi resta ben poco dentro, a parte l’indolenza dettata dal vedere tanto talento restare sull’uscio senza quasi mai esplodere. Non bastano tre buone tracce a costruire la zattera che ci salverà da questa tempesta di rimpianti di “categoria 7”.

facebook/category7band

Tracklist:

1. IN STITCHES 2. LAND I USED TO LOVE 3. APPLE OF DISCORD 4. EXHAUSTED 5. RUNAWAY TRUCK 6. WHITE FLAGS AND BAYONETS 7. MOUSETRAP 8. WAVER AT THE BREAKING POINT 9. THROUGH PINK EYES 10. ETTER STORMEN

Line-up:

John Bush – voce
Phil Demmel – chitarra ritmica
Mike Orlando – lead guitar
Jack Gibson – basso
Jason Bittner – batteria

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