David Bowie: recensione di Blackstar – 8 gennaio 2016

David Bowie

Blackstar

ISO, RCA, Columbia Records

8 gennaio 2016

genere: art rock, fusion, rock sperimentale

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Partiamo dal titolo per tentare di capire l’ultima opera musicale di David Bowie, pubblicata nel giorno del suo compleanno e solo due giorni prima della sua morte avvenuta il 10 gennaio 2016. “Stella Nera” è un termine che identifica generalmente una stella che è ormai giunta alla fine della sua vita e
che si sta contemporaneamente trasformando in qualcos’altro, una cosiddetta “singolarità” astronomica.

Allo stesso tempo, però, “Stella Nera” è anche l’appellativo utilizzato in ambito medico per identificare alcune particolari lesioni dovute al cancro, male contro cui lo stesso Bowie ha combattuto per 18 lunghi mesi. Va da sé che la polisemia attribuita a queste due parole ci permette di capire che l’album che andremo ad ascoltare non sarà semplicemente una raccolta di brani, bensì il testamento musicale di un musicista che ha voluto rendere anche questo ultimo tratto di vita un’opera d’arte.

Ma la trasformazione avviene prima di tutto in ambito musicale. Blackstar è la rarità nella discografia del Duca bianco che, facendosi influenzare dalla libertà creativa ed espressiva del genio hip hop di Kendrick Lamar, abbandona le sonorità rock più consuete per arrivare a immergersi in un mondo fatto di
sperimentazione e ampiamente contaminato dal jazz.

Questo è quanto ritroviamo già a partire dall’eponima prima traccia dell’album. Il sintetizzatore di Jason Linder e la batteria jazz di Mark Guiliana fanno da sottofondo alla voce di David che, nella ripetizione di pochi e impenetrabili versi, ci introduce come in un rito pagano in un mondo occulto e misterioso.

Bowie veste qui i panni del suo alter ego Major Tom, che ha ormai terminato il suo viaggio sulla terra e si appresta ad abbandonarla. Ma prima di farlo sembra volersi liberare di alcune spiacevoli etichette attribuitegli durante la sua visita: “I am not a popstar”, “I am not a film star”, esclama. Infine, quasi in segno
di liberazione, ripete a più riprese ciò che è diventato: “I’m a blackstar”.

I toni cupi del brano vengono addolciti solo dal breve quanto efficace assolo di sax di Donny McCaslin, l’altro vero protagonista di questo splendido album. Ed è proprio quest’ultimo a fare da apripista per il pezzo successivo Tis a Pity She Was a Whore che, insieme a Sue (Or In a Season of Crime) , era già stato pubblicato in precedenza come singolo.

E’ qui che Bowie dimostra la libertà compositiva alla base del progetto. I brani vengono rinvigoriti dal duo ritmico
Lefebvre-Guiliana con basi drum ‘n bass, mentre il sax di McCaslin si libra in aria tra vorticose improvvisazioni che sfiorano (in particolar modo nel caso di “Sue”) le sonorità nu e free jazz di nuova
ispirazione newyorkese.

Infine, a Bowie il compito di tracciare nei testi di entrambi i brani un finissimo parallelismo tra la propria condizione di sofferenza dovuta alla malattia e la vicenda di alcuni personaggi dell’opera drammaturgica Tis a Pity She Was a Whore dello scrittore seicentesco John Ford. La voce riverberata di David introduce la successiva Girls Love Me, traccia caratterizzata da sonorità elettroniche sincopate, ben scandite ancora una volta dal groove realizzato da Guiliana. L’atmosfera si fa ansiogena e il battito claustrofobico del nostro cuore segue l’andamento costante della linea di basso, che si ripete invariata dall’inizio alla fine della canzone.

Il genio di Londra, invece, sembra volersi beffare del suo ascoltatore, ricorrendo per la scrittura del testo a un incredibile pastiche linguistico formato dall’unione del vocabolario “nasdat” (slang anglo-russo di Arancia Meccanica) e il “Polari”, gergo utilizzato dalla comunità LGBT nella Londra degli anni ’70.

Poi si sentono sfogliare delle pagine. Un sospiro. Un tintinnio elettronico. Il dolce accordo del pianoforte e il soffio grave e arioso del sax ci introducono in uno dei momenti più belli e introspettivi di Blackstar, la ballad Dollar Days. Qui la voce di Bowie, accompagnata dalla chitarra acustica di Ben Monder, si scaglia contro l’industria musicale e i vuoti vizi del suo tempo. Il Duca si immagina ormai come un uomo giunto alla fine del suo percorso e a cui, come ripete incessantemente, non è rimasto nient’altro (“It’s nothing to me”), se non la speranza di rivedere le sue verdi distese inglesi. La sua patria.

Ancora una volta McCaslin non sbaglia e fa centro con un assolo che definirei etereo, mentre un trascinato assolo di chitarra elettrica fa da trait-d’union per il pezzo conclusivo, I Can’t Give Everything Away. Capitolo finale che rimane sulle armonie più canoniche di Dollar Days e meno jazzate rispetto a tutto il resto del disco. Il sintetizzatore e il suono nostalgico di un’armonica in sottofondo aprono il sipario su un’atmosfera sospesa, riempita solamente dalle parole di David, il quale pare voglia lasciare come ultimo dono una chiave di interpretazione di tutta la sua poetica.

“Seeing more and feeling less
Saying no but meaning yes
This is all I ever meant
That’s the message that I sent”

Le sue ultime parole infine sono: “I can’t give everything away”, ripetute come una preghiera sino al termine del brano, che svanisce in seguito a un meraviglioso e catartico assolo dell’elettrica di Monder. Le tende del sipario si chiudono… o forse no.

Ho voluto appositamente lasciare Lazarus per ultimo, per via della sua unicità. Seppur avvolto nelle tenebre come il resto del disco, con Lazarus si torna a un rock più tradizionale, con potenti squarci di chitarra elettrica distorta a intervalli regolari e una batteria più dritta. Ma a renderlo specialmente diverso è il suo protagonista. In questi sei minuti e ventidue secondi, Bowie accantona ogni precedente misticismo per parlare a cuore aperto all’ascoltatore della sua imminente morte.

Si mostra così umano, con le sue ferite e fragilità: “Look up here, man, I’m in danger. I’ve got nothing left to lose”. Il brano cresce lentamente di intensità fino alla terza strofa, quando David si rivela e raggiunge l’apice con un’interpretazione struggente:

“This way or no way
You know I’ll be free
Just like that bluebird
Now, ain’t that just like me?”

Questo è il testamento nel testamento di David Bowie che, con la costruzione di un’opera sperimentale e avanguardistica, è riuscito come Lazzaro a sconfiggere la morte e a rendersi ai posteri immortale.

Marco Milo

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