Franco Battiato: recensione de L’Era del Cinghiale Bianco

Recensione a cura di Lucrezia “Chinaski” Barotti

New wave allo stato puro per questo album del 1979: L’Era del Cinghiale Bianco.

Franco Battiato ci delizia oggi con una delle sue performance più famose, sebbene al tempo non riscosse il successo che più avanti lo avrebbe travolto. Forse per il suo essere troppo all’avanguardia, che da sempre ha caratterizzato il percorso di questo artista, o forse per il suo porsi sulla scena musicale in una Italia abituata a “canzonette” che, seppur orecchiabili e piacevoli, non erano nulla in confronto alla sua poesia espressa su pentagramma.

Il primo brano è proprio quello che dà il titolo all’album, L’Era del Cinghiale Bianco. La violenza dei violini preannuncia un ritmo coinvolgente, che riprende dopo ogni ritornello per poi dare fine ad una traccia che resterà sempre uno dei pezzi più famosi dell’autore. La simbologia dell’animale preso in questione tocca gli antropologi, gli storici e, forse, perfino i religiosi; ma per i più profani altro non è che una delle particolari stranezze dell’artista, come le descrizioni sempre dettagliate di una vita vissuta ed assaporata appieno.

Strade dell’Est è altrettanto da segnalare, proprio se si parla di musica rock, anche se risente ancora delle vibrazioni sperimentali del primo periodo della sua carriera. La voce di Battiato è carica, non si lascia perdere nulla della descrizione romanzata di queste terre che, in un tempo in cui i viaggi e la comunicazione non erano alla portata di tutti, sembrano un mondo esotico e, non dimentichiamolo, tanto amato dall’artista. Il rock dei riff di chitarra a cui non ci ha assolutamente abituati calzano a pennello, in contrasto con una prosa quasi romantica e poetica.

Particolare è Stanizza d’Amuri. Il fatto che, come si può intuire dal titolo, sia cantata interamente in siciliano può non aver raggiunto fin da subito una vasta schiera di amatori. Ma l’amore per la Sicilia, e la struggente testimonianza di una vita durante la guerra e dopoguerra, la fanno diventare col tempo una pietra miliare delle sue composizioni.

Man manu ca passunu i jonna
sta frevi mi trasi ‘nda ll’ossa
ccu tuttu ca fora c’è a guerra
mi sentu stranizza d’amuri
l’amuri”

“Mano a mano che passano i giorni
Con questa febbre che mi entra nelle ossa
Anche se fuori c’è la guerra
Mi sento una stranezza d’amore
L’amore”

La personalità di questo album inizia a scostarsi da quel periodo sperimentale che aveva fatto arricciare il naso alla critica del tempo (ed in parte, forse, anche a quella odierna), anticipandoci un pop “intellettuale” con riferimenti letterari, culturali ed alle volte perfino linguistici. Non solo: L’Era del Cinghiale Bianco è precursore di un ingresso nelle classifiche italiane e una notorietà maggiore. Il passo definitivo sarà l’album Patriots, del 1980.

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