Metallica: recensione di 72 Seasons

Metallica

72 Seasons

Blackened Recordings

14 aprile 2023

genere: melodic thrash, hard rock, heavy metal

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Recensione a cura di Marco Calvarese

È questione di aspettative, mi dico.
Quando una band che ha fatto la storia esce dagli studi di registrazione, il mondo si mette in ascolto. Se la band in questione si chiama Metallica e torna ad incidere dopo la bellezza di sette anni, le aspettative raggiungono l’apogeo e tu non puoi scegliere: semplicemente non puoi sottrarti. Puoi, però, seguire un consiglio spassionato: per prepararti all’evento, la prima cosa da fare per goderne appieno e, soprattutto, esprimere un giudizio di senso compiuto, è mondarti dalla sindrome del Master of Puppets.

Sono trent’anni che i quattro cavalieri dell’apocalisse hanno deviato dai binari del thrash metal: fattene una ragione. Perciò, se le tue aspettative sono mosh pit e rabbia degli esordi, sappi che sei fuori strada. Se, invece, conscio di offrire cuore e orecchio a una leggenda del rock, ti aspetti di ascoltare della buona musica, godibile, immediata, a tratti memorabile, quest’album è quello che fa per te.

Il passo successivo è descrivere 72 Seasons, undicesima e ultima fatica discografica della band americana: impresa per nulla facile, perché è un album fresco e molto, molto vario, al cui interno c’è tutto l’immenso bagaglio musicale dei nuovi Metallica.
Si tratta di un concept su un tema, quello del passaggio all’età adulta con i suoi mille tormenti e lati oscuri, già caro a James Hetfield fin dai tempi di Fade to Black.

È nitido, a partire dalla cover e lungo tutte le tracce, il richiamo continuo al Black Album (emblematica Shadows Follow, ascoltare per credere), ma c’è tanto di più. Ci sono accelerazioni durante le quali è difficile non pensare ai Motörhead (il bridge di Screaming Suicide) o perfino ai Guns’n’Roses (Lux Æterna e quel riff che fa tanto Perfect Crime); i ritmi, tuttavia, sono quasi sempre cadenzati fino a sfiorare parossismi di vago sapore sabbathiano (You Must Burn!, sequel virtuale di Sad But True, ma anche Sleepwalk My Life Away).

C’è un susseguirsi di riff easy, ma quasi sempre ispirati e legati da arrangiamenti di prima classe (come in Chasing Lights). C’è un tessuto sonoro riconoscibile dalla prima all’ultima nota ma, nel contempo, cangiante, grazie a un interessante gioco di distorsioni (Crown of Barbed Wire o la infinita ma intrigante Inamorata) e cambi di ritmo (come nel prezioso breakdown della tiratissima title track).

Emerge diffusamente, quasi liberatorio, il gusto southern e di chiaro stampo blackmoriano di Kirk Hammett (fino alla citazione letterale nel solo di Screaming Suicide, forse il brano dagli influssi più limpidi dell’intera release), arrivando, talora, a recuperare certe sonorità seventies (la stessa closing track), soprattutto nell’hard & heavy di Room of Mirrors, a parer mio tra gli episodi più fortunati dell’intero disco.

Se a questo caleidoscopio di colori e profumi aggiungete un pizzico di …And Justice for All (nello strumentale di If Darkness Had a Son) e talora perfino di Kill’em All (come in Too Far Gone?, il brano più thrash della release), tanto robusto rock and roll tarato sui bassi, melodie vocali mai banali e il collante di un sound 100% Metallica, ecco che avrete la ricetta completa di questo platter, gustosa e digeribile. Magari alla fine vi resterà ancora fame di metallo pesante, magari alcuni retrogusti vi faranno rimpiangere i sapori forti della gioventù, ma questa pietanza limone e zafferano non si può certo dire che manchi di arte culinaria o di condimento.

Difficile trovare un brano che faccia gridare al capolavoro, ma anche uno che non catturi l’attenzione, perché ogni frame è un racconto intimo, nostalgico e insieme proiettato in avanti: ogni episodio vibra all’unisono col diapason di qualche ascoltatore, in una virtuale e subliminale interazione con il vecchio e il nuovo popolo dei Metallica, che darà modo a ognuno di noi di sentirsi protagonista e di scegliere il proprio pezzo preferito. Perché questo è il segreto della longevità dei (ex?) signori della Bay Area: al netto dello snobismo degli ortodossi, un rapporto simbiotico con il proprio pubblico, con tutti e con ciascuno.

Dunque un comeback molto buono, in cui la voglia di divertirsi e divertire non manca mai, anzi: si tratta forse del lavoro più sincero e articolato tra quelli pubblicati da Hetfield e soci nel nuovo millennio. Poi, certo, sarebbe facile snocciolare il solito elenco di difetti arcinoti dei Metallica 2.0: la prolissità spocchiosa, Lars Ulrich che alterna due quarti e quattro quarti per il 99% del tempo e Hammett che sparge litri di Vinavil sul wah-wah, rischiando sempre di appiattire ciò che esce dalle casse.

È però innegabile che di questi difetti i four horsemen abbiano fatto uno stile sonoro, finendo, così, per mettere a segno un altro successo, grazie anche ad una produzione sontuosa, al riffing maturo e orecchiabile e, sia detto sommessamente, al buon lavoro di Rob Trujillo, finalmente fuori dal cono d’ombra. E non dimentichiamo uno dei pregi più importanti di questo Yellow Album: ci ha risparmiato l’ennesima versione di The Unforgiven!

Aspettative, dicevo: per quel che mi riguarda, 72 Seasons non le ha disattese, anzi, le ha superate a pieni voti, anche perché non ne avevo. Ora sono pronto a non sentire il bisogno di un nuovo album dei Metallica per altri sette anni.

Tracklist:

72 Seasons
Shadows Follow
Screaming Suicide
Sleepwalk My Life Away
You Must Burn!
Lux Æterna
Crown Of Barbed Wire
Chasing Light
If Darkness Had A Son
Too Far Gone?
Room Of Mirrors
Inamorata

Membri della band:

James Hetfield – voice, rhythm guitar
Lars Ulrich – drum
Kirk Hammett – lead guitar
Robert Trujillo – bass

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