Pearl Jam: recensione di Vitalogy – 22 novembre 1994

22 Novembre 1994. I Pearl Jam pubblicano il loro terzo album, Vitalogy.

Va specificato che il 22 Novembre fu la pubblicazione in vinile, mentre uscirà su supporto CD solo il 6 dicembre dello stesso anno.

Il 1994 è stata una grande annata per il rock in ogni sua forma e per ciò che ovviamente riguarda la realizzazione di dischi rock, per quantità e qualità.
Basti ricordare la pubblicazione di album storici di quel decennio come Grace di Jeff Buckley, Monster dei R.E.M., l’MTV Unplugged dei Nirvana, Superuknown dei Soundgarden, Welcome to Sky Valley dei Kyuss, Dookie dei Green Day, Jar of Flies degli Alice in Chains, Purple degli Stone Temple Pilots, Voodoo Lounge dei Rolling Stones, Burn my Eyes dei Machine Head e Stranger than Fiction dei Bad Religion. Questo, oltretutto, è solo un elenco parziale delle uscite di quell’anno.

Inevitabilmente influenzato dagli avvenimenti del periodo, il suicidio di Kurt Cobain su tutti (la ballata blues Immortality, nonostante Vedder abbia sempre negato espliciti riferimenti, sembra riferirsi in più passaggi alla vicenda del leader dei Nirvana), Vitalogy presenta pezzi più crudi rispetto al passato e giunge in un momento in cui la band dimostra un perfetto equilibrio tra la rabbia dei primi album ed un’inevitabile maturazione espressiva.

Vitalogy va ricordato anche per l’originalità dell’artwork: una specie di prontuario raffigurante l’anatomia, malattie, rimedi erbacei, e consigli per la casa. Vedder racconta in un’intervista di aver acquistato il libretto in un mercatino dell’usato, il quale presenta foto di mura romane con scritte contro Bush senior, radiografie dei denti dello stesso Vedder, articoli riguardanti chi sposare e come, foto di capi indiani e di dottori dell’epoca.

Vita e morte, non a caso, sono i temi che attraversano l’album: dall’apertura di Last Exit, forse un riferimento al suicidio e al ritrovamento del corpo di Cobain, fino ai riferimenti alla vita eterna in Immortality, quasi in chiusura di album.

Ricordate il famoso e famigerato legame tra il metal e Satana dagli anni ’70 in poi? La cosa importante da ricordare è che questo legame non ha nulla a che fare con la musica. Dal punto di vista prettamente tecnico, infatti, Shout at the Devil dei Mötley Crüe non è più esplicita nelle sue intenzioni di Satan’s Bed dei Pearl Jam, eppure la seconda non è mai stata considerata una canzone satanica. Forse perché, in merito a certe tematiche, la differenza sta sempre in colui che si fa portavoce di quel messaggio.

In Vitalogy, Eddie Vedder ci racconta l’essere umano con l’emozione che trasmette il tremolio del suo timbro caratteristico, secondo la sua prospettiva: un individuo che, dall’onnipotenza degli anni ’80, è finito per accontentarsi di essere un uomo da niente; intrappolato nell’incertezza tra il suo passato ed il futuro, tra la necessità di fuggire da tutto e il triste destino di rimanere dentro se stesso, attraverso un processo di crescita sempre più fragile e precario.

Ve lo ricordate anche voi quando eravamo forti e spavaldi, e aspettavamo senza paura che fosse il mondo a venirci addosso? Quei tempi sono diventati nostalgia.

Alla fine c’è chi ha dovuto far finta di dormire per superare tutto in silenzio.
“Andrà tutto bene, passerà”, avevi detto, girandoti a fatica dall’altra parte, mentendo a te stesso/a. Avevamo ancora bisogno di sognare, e così avevamo iniziato a sognare a colori, per combattere le difficoltà ed il grigiore delle ore in cui eravamo svegli. Verrebbe quasi naturale una metafora politica, ma capisco che non è questo il contesto adeguato.

Vitalogy è uno studio della vita e della morte, temi tanto cari e inflazionati negli anni ’90: riflessivo e triste, ma sempre legato ad un sottile filo di speranza.

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