Red Hot Chili Peppers
Return of the Dream Canteen
Warner Records
14 Ottobre 2022
genere: funk rock, alternative rock
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Recensione a cura di Andrea Profili
Tornano i Red Hot Chili Peppers, a soli sei mesi dal precedente Unlimited Love, tra sperimentazioni più o meno riuscite e terreni già noti ai fan di vecchia data.
Che questa pubblicazione potesse e dovesse essere diversa dalla precedente, lo si auspicava, e in parte le aspettative sono state confermate. Return of the Dream Canteen non è una raccolta di b-side, ma risente in alcuni passaggi del poco divario temporale da Unlimited Love, essendo stati registrati entrambi in un’unica grande sessione sotto l’occhio attento di Rick Rubin. Allo stesso tempo però, ci presenta una versione della band mai ascoltata prima, il che non è sempre necessariamente un bene.
Pur mantenendo lo stile identitario che li ha resi celebri, in quest’ultimo lavoro ci vengono proposti brani che spiazzano l’ascoltatore, contaminati dalla musica elettronica, dalle tastiere, dal jazz, dal soul e da George Clinton su tutti, ma che non sempre funzionano e convincono.
Nota piacevole, il ritorno sempre più imponente dei fiati, così come nei primissimi lavori di metà anni ’80, quando ancora né Chad Smith né John Frusciante facevano parte della formazione.
L’album si apre con il primo singolo promozionale, Tippa My Tongue, che è un brano che funziona e richiama le sonorità della metà degli anni 2000, con una buona dose del funky marchio di fabbrica dei Peppers. Peace and Love e Reach Out scorrono, senza particolari guizzi e con quella sensazione di già sentito, solo qualche mese addietro.
Eddie, invece, è il capolavoro dell’album, con un Frusciante spaziale e perfetto nell’omaggiare le sonorità e lo stile del genio a cui la canzone è dedicata, Eddie Van Halen, senza perdere la propria identità. A seguire, una dietro l’altra gli altri pezzi più riusciti dell’album, Fake as Fu@k e Bella.
Roulette non resta impressa nemmeno dopo il quarto ascolto, mentre My Cigarette lo fa immediatamente, nel bene o nel male. Ad ognuno la propria scelta. Sicuramente si tratta qualcosa di inusuale per i Red Hot.
Anche Afterlife è Shoot Me a Smile faticano a rimanere impresse e a distinguersi da alcuni dei pezzi di Unlimited Love, mentre Handful è più centrata, con un alternarsi della tromba di Flea a dolci melodie di Kiedis, accompagnate dalla chitarra leggera di John.
The Drummer, di cui è appena stato rilasciato il videoclip, sembra appena uscito dalla colonna sonora di Flashdance. La strofa, sebbene insolita, è decisamente più ispirata del ritornello, che invece non incide ancora una volta. La successiva Bad of Grins risulta stonata e difficile da digerire, riprendendosi in parte nel finale.
La ballad La La La La La La La La (sic!), per quanto piacevole, purtroppo lascia una sensazione di imitazione, di qualcosa che non appartiene né ai Red Hot come band, né a Anthony Kiedis come cantante. Copperbelly si salva sul finale, sempre grazie al solito trio strumentale.
Carry Me Home è un chiaro omaggio al blues e a Jimi Hendrix, con il solito pizzico di Beatles. Se l’album si fosse concluso così, probabilmente non avremmo avuto nulla da obiettare, invece a seguire parte la spiazzante drum machine anni ‘80 di In the Snow, che però presenta forse le linee vocali e melodiche più ispirate di Return of the Dream Canteen. Peccato!
La sensazione generale è che, musicalmente, i Red Hot Chili Peppers abbiano ancora qualcosa da dire, nonché la voglia di spingersi verso sonorità nuove, ma che manchi sempre un pizzico in più di quegli ingredienti che li hanno resi celebri; c’è poca traccia di blood, sugar, sex and magic, ma anche dei loro lati hot e chili, che ne facevano la band di riferimento per chiunque fosse alla ricerca di groove dai ritmi forsennati, di trasgressione ed energia pura.
Sia in Return of the Dream Canteen che in Unlimited Love, si ha la sensazione che sì, il lavoro sia di qualità, ma che alla fine manchi qualcosa, ed è proprio la loro tipica energia che latita, specialmente in alcune linee melodiche di Anthony. Se le strofe e le parti strumentali convincono, con John, Chad e Flea in stato di grazia, i ritornelli risultano più stanchi e poco memorabili.
Certo, sarebbe forse anacronistico e imbarazzante sperare che dei sessantenni possano essere gli stessi di quarant’anni fa, per energia trasgressione e musicalità, ma la mancanza di qualche canzone più potente e trascinante si sente, a discapito di qualche riempitivo di troppo e nemmeno così ispirato, che è quello che non consente di avere un giudizio pienamente positivo di questo lavoro.
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