Rival Sons: recensione di Feral Roots

Rival Sons

Feral Roots

Low Country/ Atlantic Records

25 gennaio 2019

genere: heavy rock, garage, blues, soul

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

Non riesco a spiegarmi come mai la gente continui a paragonare i Rival Sons ai Greta Van Fleet.

Mentre c’è chi si chiede come mai la band dell’istrionico e magnetico frontman Jay Buchanan (una sorta di redivivo Charles Ingalls) non abbia ancora riscosso lo stesso successo popolare dei giovani rocker del Michigan, etichettati impropriamente come cloni dei Led Zeppelin.

Non ho mai capito quelle persone che, pur di apparire fighe e non convenzionali, direbbero qualsiasi cosa, meglio se in pubblico, pur di racimolare un briciolo di notorietà.

I Rival Sons hanno dimostrato, sin dal loro esordio nel 2009, di saper abbracciare e mescolare diversi stili della vecchia scuola rock & blues, senza scadere nel facile manierismo, e di saper coinvolgere e far divertire il pubblico durante i loro concerti.

I Rival Sons hanno ormai acquisito un’identità ben precisa che trasmettono con temperamento e fierezza, attraverso un suono grezzo, onesto, ruvido, intenso, nostalgico, riflessivo, sentimentale, psichedelico e febbricitante: un rock infuso di fuzz-blues, che però non disdegna prospettive radiofoniche e pop.

Sonorità hard rock moderne in simbiosi con la tradizione di gruppi ed artisti storici del passato che, evidentemente, hanno influenzato l’ispirazione della band californiana: Van Morrison, Otis Redding, Muddy Waters, Nina Simone, Rolling Stones, Free, Led Zeppelin, Lynyrd Skynyrd, Creedence Clearwater Revival, Beatles, Doors e Black Crowes.

La formazione è è composta dallo scatenato batterista Mike Miley, dal bassista Dave Beste, dal tastierista Todd Ögren-Brooks, di cui evidenziamo la notevole barba hipster, dal virtuoso e stiloso chitarrista Scott Holiday ed ovviamente dal carismatico frontman Jay Buchanan.

Qualcuno li definisce dei nostalgici retrò, ma vi assicuro che non è affatto così. O meglio, non è così semplice descrivere il policromatico bouquet musicale dei Rival Sons.

La prima volta che ho visto i Rival Sons è stato nel lontano 2013 al Forum di Assago a Milano: erano gruppo spalla dei Kiss.

Fu amore a prima vista, anzi, al primo accordo: ricordo che rimasi travolto dall’energia blues e dalla carica soul di quella che, allora, era ancora una promettente rock band emergente.

Oggi, la band statunitense, proveniente dalla costa del Pacifico di Long Beach, è già al suo sesto album in studio, pubblicato lo scorso gennaio dal titolo Feral Roots.

È proprio da quelle radici ferine, istintive e primitive, che esce fuori, in maniera avvolgente, quel magico sound southern che sa di bourbon del Tennessee.

Il concept del disco, sin dall’artwork, va controcorrente, ponendosi completamente in antitesi rispetto alla realtà della società attuale.

Una sorta di ritorno alle origini, alla riscoperta di impulsi primordiali: questo è il rock che auspicano i componenti dei Rival Sons.

Feral Roots è un itinerario musicale che ci riporta on the road, senza una destinazione ben precisa, tra mode hipster e canti gospel: dalle colline bucoliche del Massachusetts, passando per le selvagge foreste ad ovest del Mississippi, fino alle scene western delle pellicole di Clint Eastwood.

I Rival Sons giocano subito una scala reale di prima mano composta da quattro pezzi potenti, ronzanti, distorti ed evocativi, da petto in fuori e testa alta: Do Your Worst, Sugar on the Bone, Back in the Woods e Too Bad.

I’m back in the woods again

And I know that mountain

like the back of my hand

I riff stop & go al fulmicotone che escono dalla sei corde elettrica di Scott Holiday incendiano l’aria, tolgono il respiro come se guardaste una foto di Lenny Kravitz a torso nudo, mentre le atmosfere funkeggianti e lo stile swamp rock dei Creedence Clearwater Revival rivivono nella traccia Stood By Me.

Ecco che l’album entra nel vivo del suo groove, nella sua parte più intensa e passionale.

Il ventre del disco trasuda malinconia, leggerezza, psichedelia e tormento, attraverso il potente timbro soul di Jay Buchanan, che nella titletrack Feral Roots non farebbe rimpiangere nemmeno il compianto Mark Davis Hollis; la freschezza del beat drum-machine di End of Forever; la raffinata e fluttuante ballad elettrica All Directions e la magia doorsiana dell’intro sciamanico di Look Away.

Shooting Stars è il brano che chiude l’album, in stile Motown gospel:

My love is stronger than yours…

My faith is deeper than yours

My laughter is louder than yours…

My dancing is stronger than yours

Le famose stelle cadenti di One in A Million a cui si riferiva Axl Rose. Speriamo sempre di vederne una, anche solo una volta nella vita, per esprimere il nostro desiderio più grande e irraggiungibile.

È dunque con questo messaggio positivo e ricco di speranza che si congedano i Rival Sons: un inno woodstockiano, un coro globale e contagioso a mò di Across the Universe; una preghiera suggestiva che trasmette quel sentimento peace & love molto vintage, addirittura preistorico, ma straordinariamente vivo e pulsante, come il nostro vecchio cuore rock.

Feral Roots è, probabilmente, l’album della consacrazione per i Rival Sons.

Tracklist:

1. Do Your Worst

2. Sugar on the Bone

3. Back in the Woods

4. Look Away

5. Feral Roots

6. Too Bad

7. Stood by Me

8. Imperial Joy

9. All Directions

10. End of Forever

11. Shooting Stars

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