
Articolo a cura di Stefania Milani
Il mio 2025 musicale si è chiuso ieri sera raggiungendo l’apice per valore e qualità, completando idealmente il cerchio aperto a marzo, quando andai a vedere Becoming Led Zeppelin. In questi mesi ho ammesso di aver incrementato — e rispolverato — l’ascolto della band in modo consistente, con rinnovato entusiasmo.
Devo però fare un passo ancora più indietro. Quando l’estate scorsa ho preordinato Saving Grace e sono poi riuscita ad accaparrarmi un biglietto per il concerto di Birmingham, città natale di Robert Plant, non immaginavo certo che le sorprese non fossero finite lì: la copia del CD è arrivata con una cartolina autografata a pennarello, provocando un vero sussulto — a me e, da quanto ho letto, a tutti i fan che non se lo aspettavano minimamente.
Stiamo parlando di uno dei più grandi frontman di tutti i tempi, forse il più grande, se pensiamo che anche Freddie Mercury si considerava un suo fan, oltre al fatto che Plant ha letteralmente contribuito a costruire le fondamenta del rock.
L’album mi ha conquistata fin da subito: un insieme eclettico di sperimentazioni ed esplorazioni folk, gospel, blues e psichedeliche, firmate da un Signore della musica che non smette di evolvere e cambiare, interpretando sempre al meglio — o addirittura anticipando — i tempi che verranno.

Robert Plant ci insegna che il personaggio che ci costruiamo addosso può essere perfetto per una fase della vita, ma che non dobbiamo aver paura di cambiarlo proprio per rimanere fedeli a noi stessi. Solo così può emergere ciò che sentiamo davvero, affinché l’arte resti una genuina estensione dell’anima e della mente in ogni momento della nostra esistenza, senza diventare forzata, anacronistica o, peggio ancora, rinchiusa in un guscio che ci va stretto.
Plant dimostra in modo esemplare come una delle qualità più vincenti dei grandi sia l’umiltà di avvicinarsi a generi e collaborazioni diverse, compiendo talvolta quel passo indietro che aggiunge luce anziché sottrarla. Gestisce l’energia senza strafare, come chi sa che è la palla a dover correre più delle gambe, soprattutto nella maturità. In questo percorso valorizza perfettamente la voce della sua partner musicale, Suzi Dian, all’interno di una sequenza di brani introspettivi e potenti negli arrangiamenti, capaci di sorprendere proprio quando sembrano allentare la presa.

Il live, che ho visto alla Symphony Hall di Birmingham, è stato incredibile per il coinvolgimento amichevole che riesce a creare senza alcun atteggiamento da Prima Donna. Al contrario, ci ha fatto sentire parte di una comunità, alternando i brani dell’album — da citare Soul of a Man ed Everybody’s Song — alle cover dei Led Zeppelin, tra cui Ramble On: non mi sembrava vero poter mimare silenziosamente le parole al suo cospetto.

La standing ovation finale ha reso il giusto omaggio a tutta la band, ma soprattutto a Robert Plant, al suo approccio continuamente visionario e sereno, capace di tracciare un solco anche per i più giovani, mostrando come non si debba mai smettere di guardare avanti e di anticipare i tempi, eccellendo.
Mi rimane l’immagine dei suoi occhi gioiosi, di chi ancora si diverte.
E noi con lui.

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