Era il giorno di Becoming Led Zeppelin al cinema giù alla baia. La proiezione era prevista all’ora di pranzo, in quella sala accogliente fatta di sofà e servizio al posto, dove non si contano mai più di tre o quattro spettatori: proprio come piace a me.
Ero davvero curiosa di esplorare la storia di questa band leggendaria, la cui musica ha accompagnato in modo particolare i miei sabati sera durante il lockdown, quando improvvisavo in casa le serate che in tempi normali avrei trascorso fuori.
Ho apprezzato moltissimo questa pellicola di Bernard McMahon. Innanzitutto, si distingue nettamente dalle moderne pellicole patinate in cui attori interpretano protagonisti ancora in vita: qui ci sono solo filmati originali e interviste autentiche. Si tratta di un docu-film di stampo meta-musicale, che racconta i primi passi della band britannica, dalla gavetta verso il successo planetario, senza ricorrere ad artifici narrativi ma restituendo semplicemente verità e atmosfera.
Il filo conduttore è rappresentato da un’intervista recente ai membri della band — Robert Plant (voce), Jimmy Page (chitarra) e John Paul Jones (basso e tastiere) — interrotta da un continuo fluire di filmati d’epoca. Le varie fasi della loro epopea musicale (e il pensiero non può non andare anche al compianto batterista John Bonham) si intrecciano perfettamente con il contesto storico, restituendo un quadro vivido e coerente.
Per lo spettatore coetaneo è un’immersione nei ricordi, lucidi e ancora presenti; per i più giovani, come me, è l’occasione di collocare quegli eventi in un contesto più ampio, comprendendone le dinamiche di causa-effetto. E di apprezzare anche i look iconici: camicie sgargianti e pantaloni a zampa, simboli indelebili di un’epoca che nell’immaginario collettivo resta l’apice del rock, irripetibile nei gusti contemporanei.
Il film si apre raccontando gli esordi musicali dei membri della band, molti dei quali sostenuti da famiglie già attive nel settore artistico. Si passa poi alla nascita degli Yardbirds nel 1963, band in cui il rock si fondeva con il R&B e il blues, riflettendo la crescita audace della Gran Bretagna del dopoguerra.
Gli Yardbirds furono la culla del talento di Eric Clapton (1963-65), Jeff Beck (1965-66) e Jimmy Page (1966-68). Quando Keith Relf e Jim McCarthy annunciarono l’abbandono del gruppo, la crisi divenne l’occasione per dare inizio a un nuovo progetto, con un nuovo nome.
Era il 1968, e il vento della ribellione, delle scoperte e del progresso soffiava forte sul mondo occidentale. I Led Zeppelin emersero in quel clima, dopo un breve periodo in cui, per motivi contrattuali, dovettero esibirsi come The New Yardbirds.
La loro ascesa corre parallela all’arrivo dell’uomo sulla Luna, e le immagini di quell’impresa si intrecciano con scene di concerti e festival. A favorire il loro impatto fu anche la libertà creativa concessa al momento della firma del contratto discografico, ma soprattutto una visione musicale avanguardistica, sperimentale, capace non solo di rappresentare, ma di canalizzare il cambiamento storico in atto. Con meno eccessi di quanto mi aspettassi, e con una finezza culturale sorprendentemente sofisticata.
Personalmente, avevo sempre ascoltato Yardbirds e Led Zeppelin separatamente, associandoli a stati d’animo o momenti diversi. Vederne invece i contributi in sequenza storica fa emergere tutta la genialità con cui questi musicisti hanno saputo leggere e interpretare due epoche distinte, innovando senza paragoni.
La loro musica è rottura e volontà che si impone, è fatta di parti apparentemente scollegate che trovano senso nell’insieme. Un linguaggio sonoro simile a ciò che il neo-dadaismo realizzava nelle arti visive: contrasti, frammenti, ripartenze che si ricompongono in armonia. Un collage sonoro che in brani come Whole Lotta Love — che torna più volte nella proiezione — appare in tutta la sua evidenza.
Anche il linguaggio si ribella: testi con rime inconsuete, sonorità spigolose e scelte vocaliche fuori dagli schemi — quella predominanza di “u” ed “e” che spezza la consueta dolcezza dell’inglese parlato. Tutto comunica rivoluzione, ma senza violenza.
Se il controverso ’68 fosse stato esclusivamente questa sintesi tra cultura e sperimentazione, avrebbe davvero avuto un senso profondo.
C’è spazio anche per qualche cenno alle loro vite familiari, alla fatica di conciliarle con i tour. Ma ciò che mi porto via dalla sala sono gli occhi fieri e sorridenti dei tre protagonisti. Brillano come il sole sull’oceano di fronte a me: lo sguardo di chi sa di aver scritto la storia della musica.
© 2025, Fotografie ROCK. All rights reserved.