The Afghan Whigs: recensione di How Do You Burn?

The Afghan Whigs

How Do You Burn?

BMG

9 settembre 2022

genere: alt-rock, psichedelia, AOR, R&B soul, elettronica d’atmosfera, disco rock

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Recensione a cura di Andrea Musumeci

“Il desiderio mi brucia/il desiderio di cose belle/che ho viste e non vissute/Il desiderio mi brucia/ed impera ardente e solo/nel mio cuore e nel mio cervello.” (Cesare Pavese, 1929)

A distanza di cinque anni dal precedente In Spades e a due anni dall’esordio discografico di Greg Dulli con l’album Random Desire, i The Afghan Whigs mandano alle stampe il loro nono lavoro in studio intitolato How Do You Burn?, edito per BMG e anticipato dall’uscita dei singoli I’ll Make You See God, The Getaway e Line Of Shots.

Concepito e registrato da remoto a causa della pandemia e dei lockdown, con i componenti della band sparsi tra California, Cincinnati, New Jersey e New Orleans, il nuovo capitolo discografico (composto da dieci tracce) degli Afghan Whigs riflette – con l’amara consapevolezza di chi è appesantito dall’esperienza e fa ancora i conti con le proprie ferite – sul desiderio umano quale essenza stessa della vita, osservandone la sua natura infinita, nel suo senso di illimitatezza che ci spinge, come in un ciclo senza fine che rincorre il futuro inciampando negli stessi errori del passato, ad alimentare quel sentimento di irrequietezza e a cercare una via di fuga dai pensieri del giorno.

Sono ormai lontani i tempi di Gentlemen, dei combattimenti corpo a corpo, e chissà se noi, alla fine, siamo riusciti a diventare ciò che sognavamo di essere trent’anni fa. Ma qualcosa è per forza cambiato, si è via via assottigliato, addomesticato e mitigato nell’impeto, nonostante la retorica polarizzante e conservatorista che pervade le dinamiche interattive della contemporaneità, riversandosi in quell’ossessione mediatica del voler scovare per forza parallelismi tra epoche completamente diverse e decretare migliori e peggiori, vincenti e sconfitti.

I confronti impietosi con il passato servono semplicemente a comprendere le trasformazioni di una società, dei suoi usi e costumi, e non a continuare a vivere nella tassidermia di quei ricordi trincerati all’interno di un regime temporale. Dopotutto, il vero nemico è la vita, noi stessi, il tempo, e tutto ciò che scorre nel mezzo, tra gli innumerevoli inizi e traguardi, tra l’illusione e la disillusione, tra i rettilinei e le curve di un’esistenza in cui riecheggiano le voci di certi fantasmi, di quei traumi legati alla perdita di alcuni degli affetti più stretti, di quelle ombre che rimarranno indelebili nella memoria e nel cuore di Greg Dulli e compagni, come la prematura scomparsa di Mark Lanegan e David Rosser.

Eccezion fatta per la opener track I’ll Make You See God – che con il suo incedere stoner dai tratti esoterici e deliranti si trascina in un vorticoso crescendo di funamboliche fanfare celtiche – tra le tracce di How Do You Burn? si respirano nuove soluzioni creative, senza l’urgenza di ripetersi e senza dare troppi punti di riferimento sotto l’aspetto stilistico, spaziando tra sequenze umorali animate da una visione più eclettica, da un’espressione più evoluta, più elegante, seppur ermetica sotto l’aspetto testuale: un’alchimia struggente dove le ritmiche elettrificate di certo passato alternative rock si affievoliscono per far posto alle poliedriche sfumature della musica elettronica e all’ampio repertorio della black music, quando gonfiandosi di sonorità dense, pompose e barocche, quando con arrangiamenti dalle atmosfere intime e minimaliste.

Si va dai turbamenti suadenti dell’R&B soul (Concealer) a un retrogusto psichedelico di stampo beatlesiano (The Getaway), dalle tensioni trip-hop di beat noir che rimandano a Gorillaz e Massive Attack (Jyja, Take Me There) all’enfasi d’ispirazione disco rock (Catch A Colt), fino ad accarezzare linee eteree, fluide e oniriche disegnate dagli archi: una credibilità e una versatilità scritturale che hanno permesso ai The Afghan Whigs (Greg Dulli, Patrick Keeler, unico elemento superstite della formazione originale, John Curley, Jon Skibic e Rick Nelson) di scollarsi da certe etichette istituzionali di genere e conferire, in generale, maggiore intensità emotiva e immediatezza melodica alle composizioni, da un lato sfruttando la profondità tonale delle slide guitar, dall’altra rievocando una malinconia radio-oriented (Domino and Jimmy, Line Of Shots Please, Baby, Please).

Servendosi della musica come fedele e onnipresente guida spirituale, e stringendosi intorno al proprio falò, attorno a quell’eclisse di luna rosso fuoco che illumina i lati oscuri dell’esistenza, i The Afghan Whigs riescono a manipolare e coordinare le mutevoli fragilità dell’anima, a prendere coscienza del proprio tempo e della lotta incessante che quotidianamente ci pone contro i nostri stessi limiti, a imparare il mestiere di saper convivere coi propri demoni, attraverso l’alternanza tra il bianco e nero del presente e i momenti di colore della vecchia vita, reclamando ancora un pezzo di se stessi, insieme a quella fiamma di sigaretta che continua a consumarsi tra le dita, lentamente e dolcemente come il tramonto di una notte di mezza estate, come il desiderio di cose ancora non vissute.

Membri della band:

Greg Dulli: voce

Patrick Keeler: batteria

John Curley: basso

Jon Skibic: chitarra

Rick Nelson: chitarra, synth, archi

Tracklist:

I’ll Make You See God

2. The Getaway

3. Catch A Colt

4. Jyia

5. Please, Baby, Please

6. A Line Of Shots

7. Domino and Jimmy

8. Take Me There

9. Concealer

10. In Flames

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