The Cure
Songs Of A Lost World
Lost, Polydor, Capitol
1 novembre 2024
genere: darkwave, dream-wave, goth rock, synth-wave, new wave
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Recensione a cura di Andrea Musumeci
“L’attesa è una suspense elementare, è un antico idioma che non sai decifrare, è un’irrequietezza misteriosa e anonima, è una curiosità dell’anima”, cantava Giorgio Gaber nell’omonima canzone L’attesa.
Finalmente, a distanza di ben sedici anni dal precedente album 4:13 Dream, è uscito Songs Of A Lost World, il tanto atteso comeback discografico dei Cure, anticipato dalla pubblicazione dei singoli Alone (il cui testo è ispirato alla poesia di Ernest Dowson, Dregs) e Endsong.
Un lungo periodo durante il quale il mondo si è consumato (e continua a consumarsi) freneticamente intorno alle emozioni primordiali che muovono le vicende umane e i suoi cambiamenti. E mentre il torpore autunnale con il giallo delle foglie morte nell’aria precede lentamente il grigiore umido e tedioso dell’inverno, le otto canzoni di Songs Of A Lost World (quattordicesimo lavoro in studio) rievocano chiaramente il sentimento sonoro dei Cure di fine anni 80 e inizio 90, manifestando la necessità di recuperare ciò che resta di quel mondo “giurassico” – sebbene ogni cosa esiga il suo momento – e interiorizzando proprio quel concetto di disintegrazione e trasformazione che da lì a poco avrebbe condotto il decennio verso nuove frontiere sociali e geopolitiche.
Facendosi eco e abisso di quella maestosa, epica, oscura e solenne intensità strumentale che li ha introdotti di diritto nella “wall of fame” della letteratura musicale new wave, i Cure sono riusciti a catalizzare incertezze e inquietudini di una generazione intrappolata su una specie di ragnatela emotiva: come trapezisti in equilibrio precario sulla corda sottile che separa speranza e disillusione, amore e dolore.
Se con Songs Of A Nervous Planet i Tears For Fears denunciano le connessioni tossiche e alienanti dell’attualità, in Songs Of A Lost World Robert Smith (con eyeliner e rossetto rosso sbavato che alla sua veneranda età fa tanto Marisa Laurito) si sofferma sul voyeurismo cronico che permea la società moderna (Drone:Nodrone) e sui fronti di guerra che affliggono l’attualità (Warsong); si interroga sullo scorrere del tempo, su quanto sia invecchiato e sulle fasi emozionali di una vita, puntando l’enfasi narrativa e strumentale – con una malinconia orchestrale e cinematica da C’era Una Volta In America – sulla natura irrevocabile dell’essere umano e sulla perdita del mondo per come lo conoscevamo.
Ancora oggi, nonostante una longeva e importante carriera alle spalle, in cui non sono mancati anche momenti meno brillanti, Robert Smith raccoglie tutto il suo esistenzialismo autobiografico filo-camusiano per filtrare ed elaborare quella sensazione di irreparabile mancanza, di oblio, di sofferenza a cui non sembra esserci rimedio, se non nell’intervento palliativo dei ricordi e della nostalgia (“eravamo sicuri che non saremmo mai cambiati, che saremmo rimasti sempre gli stessi”).
Dopo un intro strumentale di tre minuti e venti (Alone), in controtendenza rispetto alle mode usa e getta dell’oggi, ecco liberarsi finalmente il caratteristico timbro vocale del cantautore di Blackpool (“this is the end of every song that we sing”), che non sembra accusare affatto l’usura delle sue sessantacinque primavere.
Così, Songs Of A Lost World prende quota nella dimensione di un’intimità magica, evocativa, elegante e coinvolgente, dove malinconia e dolcezza si inseguono e si sovrappongono sotto il chiarore lunare della notte. Ritmi lenti e incalzanti si insinuano in profondità, sottopelle, diffondendosi in uno straziante saliscendi di atmosfere lugubri e oniriche di synth e sezione d’archi e nelle distorsioni di un rock cupo e melodico che scaturisce da chitarre elettriche in feedback.
La musica, dunque, come mezzo per riappacificarsi con se stessi, e al contempo come soundtrack ideale per mitigare le ferite dovute ad assenze definitive (I Can Never Say Goodbye è stata scritta da Robert Smith in memoria del fratello morto), la fugacità del tempo a disposizione, la fragilità dell’amore (“questo amore è una cosa fragile”) e l’inevitabilità della fine, quando il fuoco si trasforma in cenere e le stelle cominciano a offuscarsi.
Ma in fondo niente è per sempre, caro Robert, e l’unico senso di questo viaggio che ci accomuna e ci perplime – come la fine di ogni canzone – è rifugiarsi nel battito e nel calore silenzioso del solo abbraccio a cui sentiamo di appartenere.
Nonostante, ad alcuni, Songs Of A Lost World possa sembrare un’operazione nostalgia o un disco per soli fan, lo spirito creativo dei Cure mostra ancora fascino e ragion d’essere. Un altro viaggio per cui valeva la pena attendere.
Tracklist:
1. Alone 2. And Nothing Is Forever 3. A Fragile Thing 4. Warsong 5. Drone:Nodrone 6. I Can Never Say Goodbye 7. All I Ever Am 8. Endsong
Membri della band:
Robert Smith – voce, chitarra, basso a sei corde, tastiere; Reeves Gabrels – chitarra;
Simon Gallup – basso; Jason Cooper – batteria, percussioni, loop; Roger O’Donnell – tastiere
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