Il mito dei Festival inglesi: sogno hippy o prova di sopravvivenza?

Avete presente quella scena di Bridget Jones in cui lei finisce nel fango in total white, trascinata a sorpresa ad un Festival dalla sua amica?
È tutto vero.


Sarò sincera: non essendo particolarmente appassionata di vita in campeggio, scarsità di acqua corrente, code chilomentriche ai bagni chimici, code al bar, al cibo, al merchandising e di altre amenità selvagge e rurali, in particolare in mezzo ad altre duecentomila persone, tendo a prediligere arene e sale da concerto al chiuso; mi sono dunque sempre tenuta un po’ lontana da questi eventi, che pure segnano un faro nella storia e nella cultura dei Paesi in cui sono nati.

È attorno al 1968, per poi decollare negli anni ’70, che queste kermesse prendono forma e si sviluppano proprio a partire da Woodstock negli USA e dall’Isola di Wight in Inghilterra.
Oggi il ventaglio di scelta è molto ampio, ma i principali eventi rimangono capisaldi come il Download e appunto l’Isle of Wight, che arrivano anche a seicentomila persone.

Negli anni recenti, dove il senso civico ha iniziato a prevalere sull’entusiasmo, sono sorti non pochi dubbi su fattori come sicurezza, salute, consumo di sostanze e impatto ambientale di questi mega contenitori e qualcosa si sta facendo in tal senso, con iniziative su più direzioni; personalmente, penso che dovrebbero diventare sempre più inclusivi verso la disabilità, conoscendo l’impatto positivo che la musica può avere su tanti problemi di salute fisica e mentale.

Se pensate che i festival british siano come i festival italiani vi sbagliate di grosso, per almeno 3 fattori fondamentali:
– gli ospiti (i maggiori gruppi inglesi qui giocano in casa e la partecipazione è molto più naturale e ovvia da realizzare, nonché prioritaria e quasi obbligatoria)
– il cibo, per forza di cose
– ultimo, ma non ultimo, e fondamentale: il tempo atmosferico.

Se nel Bel Paese non aspettate altro che le sere d’estate per godervi sana musica al caldo, per quanto afoso, in Gran Bretagna dovrete cambiare visione e immaginarvi con un bel paio di stivali da pioggia, pronti a sfidare decibel, melma e sabbie mobili, cercando di non far cadere l’hot dog, saltando tutti insieme e sfoderando un bel sorriso.
Invito a cercare le foto del recente Download: tre giorni sotto una pioggia torrenziale e 13 gradi Celsius, dove nessuno ha rinunciato al biglietto ben pagato e ha presenziato come se si trovasse ai tropici, magari in pantaloncini e maglietta, che si sa, gli inglesi il freddo non lo sentono… e nemmeno la cervicale.

Ragion per cui io, da brava italiana avvezza al famoso colpo d’aria, audace e curiosa di partire all’avventura, inizio riti e preghiere già dall’acquisto del biglietto sperando di non finire in quella palude e devo dire che fino ad ora mi è andata bene: mai un giorno di pioggia per me, toccando ferro, tanto che mi sono guadagnata il titolo di talismano metereologico.
Il festival più colorato a cui ho partecipato è stato senz’altro il Download: a parte gli ovvi tatuaggi, ho potuto apprezzare creste di ogni tipo, piercing fantasiosi e outfit da punk estremo e se dico estremo andate anche oltre. Il più stiloso è stato sicuramente Hyde Park, dove ho notato look alla moda, buon gusto e bella gente.

Il Download Festival

Viste le dimensioni delle location, un momento di ansia giunge all’entrata: dopo aver studiato la mappa virtuale, è il momento di individuare i palchi su cui si esibiranno i vostri artisti preferiti; un errore potrebbe mandare all’aria tutto il divertimento, soprattutto se contate di essere in prima fila per un’esibizione specifica, quindi vietato sbagliare tempi e geografia.

Non ho ancora osato approcciarmi al Glastonbury: penso mi ci vorrebbe una settimana solo per orientarmi e non sono nemmeno sicura che quelli che ci vanno sappiano veramente a quale concerto stanno assistendo, a quasi un chilometro dal palco e dopo la quinta birra. Applaudo i temerari comunque, ma qui, per me, arriva la nota dolente: in mezzo a tutta quella gente, il suono si perde irrimediabilmente nel caos e diventa un unico, enorme karaoke.
E tu non vai a sentire Paolo Nutini per ascoltare solo le voci che gli cantano sopra, no?

Però, d’altro canto, l’esperienza va presa come un’avventura wild, fra giostre dai colori anni ’50, hamburger, patatine, gelati e zucchero filato, sole, pioggia, nuvole che vanno e vengono, 27 gradi sotto i raggi, che scendono a 12 appena il cielo copre, strati a cipolla di felpe e giubbotti micro (per rispettare le misure ammesse all’entrata) che cadono di tanto in tanto per terra fra rifiuti, lattine, fango e quant’altro a prova di guerra batteriologica, gente che viene portata a spalla (il famoso crowdsurfing), gente che sale sulla schiena altrui, scarpe, stampelle e qualsiasi oggetto possa essere innalzato a trofeo per richiamare l’attenzione di un frontman che ha davanti un oceano di faccine e tu che alla decima ora in piedi ti chiedi chi te l’ha fatto fare, con la schiena che implora pietà.

È ben lontana, a quel punto, l’immagine di Instagram con camicia grunge, pantaloncini, cappello e stivali da cowboy, trucco glam e cinturone: ti tieni i tuoi capelli arruffati dalla shower (quella pioggerella che non è né nebbia, né pioggia, ma una vera e propria doccia vaporizzata che ogni tanto il cielo tira giù da queste parti anche quattro, cinque volte al giorno), la maglietta fuori dai pantaloni, la felpa sgualcita e le scarpe che hanno raccolto di tutto.

Però poi sei in front row e la tua band è davanti a te, l’acuto spacca il cielo, apre le nuvole e ti inonda di raggi solari in un tramonto bellissimo, ti dimentichi i centoventimila dietro di te, la birra che lanciano in aria, conti che non ti schiaccino, non li senti nemmeno più, ci sei solo tu e l’assolo di quella chitarra elettrica che ti solleva sopra tutto.
E diventa un’altra, meravigliosa, giornata da ricordare.

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