Comunicare sui social non è facile, soprattutto se si vanno a toccare argomenti che sono veri e propri campi minati.
Qualche giorno fa mi è capitato di leggere un lungo dibattito all’interno di un gruppo di musica rock su un social network. Del resto, chi, oggigiorno, non è membro di almeno un gruppo sui social, a prescindere dalle tematiche che si trovino in esso. Nel caso specifico, l’oggetto del post ‘incriminato’ era quello di un giovane utente, bannato da un altro gruppo, perché aveva scritto, forse in maniera ingenua ed involontariamente provocatoria, che per lui, Queen e Freddie Mercury, non rappresentano nulla di eccezionale. Il succo era questo.
Chiaramente, nemmeno a dirlo, si è scatenata, puntuale, la bagarre, una semi-rissa digitale, con gli indignati, minacciosi come gli Uruk-hai di Tolkien, da una parte, e i moderatori filodemocratici in trincea. Un classico intramontabile. Poi, apro e chiudo parentesi, tra i tanti fan dei Queen, ce ne fosse stato uno che ha scritto il nome di Freddie Mercury in maniera corretta: una sfilza di “Freddy”, che a un certo punto mi era sorto anche il dubbio.
Chiarisco che il senso di questa riflessione non è assolutamente quello di ritornare sull’oggetto di quel post, ma solo una mera analisi in merito ad un aspetto della nostra cultura, a mio avviso alquanto demenziale e poco edificante, ma evidentemente abbastanza serioso e frustrante per altri. Intavolare certe tematiche sui social è sempre un rischio, possono rappresentare un boomerang, addirittura una pratica sadomaso, un pò come scrivere che il tofu fa cagare all’interno di un gruppo social di vegani, oppure intervenire ad una radio che parla della Roma, e dire che Totti non è stato un calciatore fondamentale.
Possiamo dire, tranquillamente, che, al giorno d’oggi, specialmente sui social, non si può scrivere tutto ciò che si pensa liberamente, senza preoccuparsi del conseguente giudizio altrui come conditio sine qua non, e soprattutto con l’accortezza di non urtare la fragile sensibilità dei fan, chiunque sia l’artista in questione. Eh si, perché poi dal vivo, tutto quello che succede sui social non accadrebbe mai, visto che, da dietro un monitor e una tastiera, mancano alcuni elementi fondamentali che stanno alla base della comunicazione verbale. Dal vivo, finirebbe tutto a tarallucci e vino, magari tra abbracci e risate, senza quella tensione generata invece sui social da persone che, nella maggior parte dei casi, nemmeno conosci, che in quel momento si ergono a Detentori di Verità Assolute, Tuttologi, Leoni da tastiera, Giudici più intransigenti di Manuel Agnelli ad X-Factor, ed inquisitori più feroci di Torquemada.
Discutere su un social è un diritto, ma ormai ci sono temi che sono diventati scottanti. Un tema come il rock, ad esempio, nel giro di pochi commenti, si può trasformare in fanatismo religioso, tra insulti e discriminazione. C’è quindi bisogno di un’autocensura preventiva? Oppure è conveniente tenere un atteggiamento paraculo? Forse, un dosaggio equilibrato di entrambi.
Solitamente i media, salvo rarissimi casi, quando parlano di una rock band, si soffermano solo sulla figura del cantante, che di conseguenza, rispetto agli altri componenti della band, ha molte più opportunità di apparire interessante agli occhi del pubblico. Ma un altro aspetto importante, a mio avviso, è il rapporto che i fan hanno con una rock band.
E così, mi riallaccio al prolisso incipit del post. I fan dei mostri sacri del rock, per consuetudine e per quello che ho potuto constatare personalmente, non sono dotati per nulla di senso dell’umorismo, in particolar modo quando si vanno a toccare i primi dischi, c’è un rispetto quasi religioso.
Ovviamente, quando si risponde a qualcuno, su un social, che il suo idolo fa schifo, rientra semplicemente nella sfera della maleducazione, e dal quel punto di vista non c’è assolutamente alcun tipo di comunicazione. La musica rock ha sempre dovuto fare i conti con la logica del virtuosismo, caratteristica amplificata soprattutto negli anni ’80, e l’infondatezza della teoria umana che spesso sostiene che complessità sia sinonimo di grandezza. Credo che nessun fan del rock, mediamente intelligente, direbbe mai che Joe Satriani è un chitarrista migliore di Keith Richards, sebbene il primo sia oggettivamente più dotato tecnicamente dell’altro.
Affermare questo sarebbe come dire che un qualsiasi scrittore che usa parole difficili, per trattare argomenti complessi, sia più importante di Ernest Hemingway.
Il problema di fondo è che spesso i fan credono di essere speciali per i loro idoli, la maggior parte dei fan si illude che ci sia un rapporto esclusivo con il proprio beniamino. Ma è lapalissiano che non potrà mai essere così. Questa riflessione mi fa venire in mente quei costosi pacchetti ‘meet & greet’, grazie ai quali i fan possono incontrare le loro rockstar preferite nel backstage per un lasso di tempo limitato, farsi delle foto con loro e stringergli la mano. Immaginate l’esplosione di gioia degli artisti, che preferirebbero di gran lunga starsene per fatti loro, con mogli o fidanzate, e che invece sono costretti, da contratto, a subirsi le facce da cazzo e i sorrisi da ebeti di perfetti sconosciuti. Quei fan potranno, così, vantarsi con gli amici di quell’incontro con Gene Simmons, tanto per fare un nome a caso, e magari raccontare con fierezza di quanto sia stato simpatico e alla mano uno come Gene Simmons, ringraziando più per il fatto che il bassista dei Kiss non gli abbia sputato in faccia.
Questo genere di idolatria rimane quasi intatta: ne sono una dimostrazione, ad esempio, gli U2, quando decisero di diventare la versione anni ’90 dei Kiss, trasformandosi in un’azienda commerciale, più pop ed esibizionista delle Spice Girls. Tranquilli, sono un fan degli U2, non di quelli sfegatati, ma li ho seguiti assiduamente negli anni ’80 e ’90, prima che si trasformassero nella versione over 50 dei Coldplay.
Lo so, questi pensieri e parole sembrano degli insulti, ma non sono altro che un mio punto di vista, nessuna verità oggettiva. Ma il problema è sempre a monte, ossia i fan accecati dall’adulazione, che si rifiutano di guardare i propri idoli come dei comuni mortali. Possiamo anche guardare e giudicare i nostri idoli rock usando una buona dose di raziocinio, non è lesa maestà, e per onestà intellettuale, lo faremo con tutte le migliaia di band e migliaia di cantanti, e soprattutto faremo i conti con i loro fan, emotivi e suscettibili.
Mi è capitato di leggere e sentire commenti tipo: “I Tool fanno musica per pochi”. Non ho mai capito chi fossero questi fortunati prescelti, come se un fan dei Tool fosse automaticamente più intelligente di un fan dei Guns N’ Roses. Qualche individuo penserà di si, con orgoglio, autocertificandosi migliore di altri, semplicemente per un gusto musicale differente. Ed in certi casi è proprio questo aspetto che divide, ossia la diversità vista come un nemico.
Per fortuna, la maggior parte dei musicisti ha capito invece che il ‘sincretismo’ musicale poteva essere un’opportunità di crescita, ed infatti così è stato.
Concludo citando un commento che ho letto sul web, in quel famigerato post, da parte di una persona che ritengo ragionevole: “Per fortuna esiste la vita reale, se sui social non trovi condivisione, non fartene un problema, ascolta quello che ti fa emozionare”.
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