Intervista a Federico Fiumani

Abbiamo parlato qualche giorno fa del disco ‘Siberia’ dei Diaframma, un capolavoro della new wave italiana. Abbiamo pensato, così, di intervistare Federico Fiumani, chitarrista, autore e unico membro stabile della band dalla loro fondazione ad oggi, di cui è diventato anche il cantante, a partire dal 1989.

FOTOGRAFIE ROCK: Federico, sappiamo che sei in tour in questo periodo. Ce ne vuoi parlare?

FEDERICO FIUMANI: Sì, il tour è iniziato già da un paio di settimane. Abbiamo dovuto cambiare il batterista dopo le prime due date, adesso suona con noi Pino Gulli, ex batterista dei C.S.I., con cui mi trovo benissimo e spero di andare avanti con lui ancora per molto tempo. Abbiamo un certo numero di date già fissate, circa venticinque, suoneremo un po’ in tutta Italia. Gli stimoli ci sono, le cose stanno andando bene, il disco è piaciuto e quindi sono contento.

FR: Ti riferisci naturalmente al vostro ultimo album, ‘L’Abisso’, uscito a Dicembre. In questo particolare periodo storico non è nemmeno così scontato che un disco ottenga consensi, soprattutto dal punto di vista delle vendite, quindi davvero complimenti.

FF: Noi, come Diaframma, siamo in ripresa già da alcuni anni, a livello di popolarità e di partecipazione del pubblico ai nostri concerti. In parte anche grazie alla riedizione del nostro primo album, ‘Siberia’, che ha ridestato interesse e ci ha dato la possibilità di suonare molto dal vivo e di farci conoscere anche dalle nuove generazioni. Ci sono tanti ragazzi giovani che ci seguono, dei quali potrei essere il padre o quasi il nonno e ciò mi rende felice.

FR: Come trovi il pubblico di oggi, rispetto a quello degli anni ‘80?

FF: Rispetto a quegli anni è cambiato tutto. Prima avevamo la stessa età dei nostri ammiratori, c’era un rapporto completamente diverso. Condividevamo con quel pubblico un certo genere musicale che aveva un’identità forte, che era quella del post punk e della new wave, eravamo un po’ un circolo chiuso, dei carbonari, però molto appassionati e vitali. Anche perché, non essendoci all’epoca ancora internet, il rapporto con la musica era più viscerale, meno mediato e viziato, era molto più intenso. Se un disco ti piaceva lo dovevi comprare, se un gruppo ti interessava non lo andavi a cercare su YouTube, ma andavi a vederlo ai concerti, c’era un investimento anche emotivo, economico e di tempo e si creava un legame molto più forte. Adesso non è più così, le cose vanno bene lo stesso nel senso che la gente viene ai nostri live, ma si tratta di un rapporto meno intenso e più occasionale.

FR: Riesci a vedere i volti dei tuoi spettatori dal palco, o noti solo una schiera di telefonini alzati?

FF: Una volta c’erano al massimo le polaroid, adesso, sfortunatamente, è come dite voi ed è un modo di fruire la musica che non riesco a capire. Purtroppo non ci si può fare niente, a meno che non venga fatta una legge che vieti gli smartphone durante i concerti; sarebbe bello se lo facessero. Sarebbe un bel modo di rieducare il pubblico, che altrimenti perde l’essenza dello spettacolo, non gode di quel momento irripetibile che è l’esperienza dal vivo.

FR: Siamo d’accordo, purtroppo questo discorso può essere esteso anche alle mostre, ai musei, ad altri tipi di eventi, come le partite di calcio. La gente non è più abituata a vivere le esperienze con i propri occhi, ma è tutto filtrato attraverso uno schermo.

FF: Assolutamente, e questo è veramente preoccupante. Anche semplicemente girare per strada e vedere tutte queste persone che non si guardano intorno, che anziché guardare le facce della gente stanno lì davanti allo schermo di un cellulare, non so se sia comico o drammatico.

FR: Diciamo tragicomico. Prima parlavi di ‘Siberia’, album del 1984. A proposito della scena rock di quegli anni, che derivava da quella del post punk inglese, con gruppi come i Joy Division, quali erano i tuoi riferimenti in fase di stesura dei pezzi, dato che i brani li hai scritti tutti tu, testo e musica?

FF: A livello musicale sicuramente, li avete citati, i Joy Division. Era un tipo di musica facile da suonare e ben illustrava il nostro stato d’animo, che all’epoca era plumbeo, oscuro, triste, pessimista. ‘Siberia’ è un disco oscuro e credo che il suo fascino senza tempo sia proprio quello. A livello di testi, invece, non mi ispiravo a nessun gruppo, ma avevo studiato molto da giovane i poeti francesi, ero un grande appassionato di poesia.

FR: I poeti francesi, quelli maledetti, tipo Baudelaire?

FF: Sì, soprattutto. I miei testi risentivano di queste letture, credevo molto nella poesia in quegli anni.

FR: Nei tuoi testi abbiamo notato, ma è solo una nostra impressione, qualche affinità con Adrian Borland dei The Sound.

FF: Non conosco tanto i testi dei The Sound, ma conosco bene la loro musica ed ebbi la fortuna d’incontrarli personalmente quando vennero a suonare a Firenze nel 1984. Regalammo loro il disco ‘Siberia’ e gli piacque molto. Mi prende sempre una fitta al cuore quando penso a com’è finita…

FR: Un epilogo davvero triste. Abbiamo parlato della scena fiorentina di quegli anni, che aveva un po’ scalzato quella bolognese del decennio precedente: c’eravate voi, i Litfiba, i Neon e altri gruppi. Tutti voi avete incominciato a far sì che si creasse interesse intorno al fenomeno della new wave italiana. Com’era il rapporto fra i Diaframma e queste altre band?

FF: Con i Litfiba era bello ed inteso, anche perché eravamo sotto la stessa etichetta discografica, la ‘Italian Records’.

FR: Avete rifatto anche il brano ‘Amsterdam’ insieme a loro.

FF: Esatto, nell’85. Con i Litfiba ci incontravamo tutti i giorni, abbiamo fatto anche una settantina di concerti insieme, sia in Italia che all’estero, eravamo davvero uniti. Abbiamo condiviso un periodo di circa due anni, muovendoci in parallelo, eravamo quasi gemelli, come gruppi. Con i Neon, invece, ci frequentavamo di meno. Mi piacevano molto, ma erano sotto un’altra etichetta discografica, cantavano in inglese e c’era una differenza sostanziale fra noi e loro anche a livello musicale. Adesso, invece, sono molto più vicino ai Neon, proprio come amicizia. Mi vedo più spesso e volentieri con Marcello Michelotti, che con i Litfiba.

FR: Nel 1989 Miro Sassolini ha lasciato i Diaframma e da quel momento hai iniziato a cantare tu. Puoi spiegarci cos’è successo?

FF: La new wave era in grande decadenza, non solo in Italia, ma un po’ in tutto il mondo, era un genere che non attirava più e stava per essere soppiantato da altre cose, come la psichedelia e da un ritorno all’hard rock e all’heavy metal, quindi gli ingaggi per noi erano sempre meno. Io attraversai un periodo, dopo il terzo album, ‘Boxe’, di grave crisi personale, che mi fece decidere di chiudere con la musica. Sciolsi la band e provai a reinventarmi cercando lavoro in altri settori. Dopo qualche mese, però, tornò in me la voglia di suonare e così rifondai la band ex novo. Iniziai a cantare e incidemmo il singolo ‘Gennaio’, che andò molto bene, e da lì ripartì la mia avventura nella musica.

FR: Perché proprio ‘Gennaio’?

FF: Gennaio era stato quel mese in cui avevo lasciato la band, avevo abbandonato la casa dove vivevo con mia madre e vagavo per la mia città, Firenze, come quei poeti maledetti che tanto amavo.

FR: Un bohémien?

FF: Quasi un barbone… La canzone parla, appunto, di me in quel periodo.

FR: Amsterdam, invece, perché è stata scelta? Il testo del brano parlava veramente di quella città o si riferiva piuttosto ad un luogo metaforico e astratto?

FF: Eravamo stati a suonare ad Amsterdam un anno prima e la città ci era piaciuta moltissimo, ma il testo parlava originariamente di un locale fiorentino, il ‘Bananamoon’. Era un brano che avevamo scritto precedentemente e poi accantonato, lo riprendemmo quando iniziammo ad incidere ‘Siberia’ e pensai che la frase “dove il giorno ferito impazziva di luce” si sposasse bene alla città di Amsterdam, così gliela dedicai.

FR: Come hai già anticipato, negli anni ‘90 il sound era ormai cambiato, si stava ritornando all’hard rock, le chitarre stavano riacquisendo importanza e anche gruppi che inizialmente avevano abbracciato la new wave si stavano spostando verso nuove sonorità. Pensiamo, ad esempio, agli U2.

FF: Nel mio caso specifico è successo un po’ il contrario. Avendo iniziato anche a cantare, ho cominciato a suonare la chitarra con lo scopo più che altro di accompagnare la voce, ho cambiato approccio. Quando cantavano Miro, o prima ancora Nicola Vannini, potevo concentrarmi sul mio strumento. Dovendo, invece, anche cantare, la funzione della mia chitarra è diventata semplicemente ritmica, al fine di dare un sostegno armonico alla mia voce. Ho dovuto abbandonare anche gli arpeggi, perché era proprio impossibile cantare e suonare, nel mondo in cui lo facevo prima, contemporaneamente.

FR: Hai scritto un libro di poesie il cui titolo, per dirlo con un eufemismo, non è propriamente un elogio a due mostri sacri della musica, quali Bruce Springsteen e gli U2.

FF: Infatti il mio è proprio un odio, odio la retorica nel rock ed in generale nella vita. Spesso chi fa del bene si parla addosso e va a finire tutto in un modo pomposo, per me orribile. Gli U2 sono la quintessenza di questo, Bono pensa di essere un Messia, il Cristo in Terra; è un modo di suonare, di concepire la musica e di apparire che io, personalmente, non sopporto.

FR: Quindi questa retorica la ritrovi anche nella loro musica e non solo nelle dichiarazioni extra professionali.

FF: Assolutamente.

FR: E pensi che questo riguardi anche Bruce Springsteen?

FF: Riconosco il grande valore di Springsteen, è indiscutibile. Per lui il discorso è un po’ diverso: semplicemente non lo sopporto. Come se dicessi che non mi piace il gelato alla Nutella, che piace a tutti, ma non a me. La retorica in lui la trovo nell’apparire, nel suo mostrare i muscoli. È un modo di proporsi che non mi piace, questo suo gonfiare il petto quando suona. Il ‘machismo’ non lo sopporto.

FR: Preferisci quegli artisti un po’ disagiati, più introversi.

FF: Sì, quelli che si vergognano, quasi.

FR: Tipo Thom Yorke?

FF: Sì, lo trovo molto più interessante. O anche David Byrne, per esempio; più affascinante e magnetico. Oppure Ian Curtis.

FR: Parlando proprio di Curtis, e tornando all’epoca della new wave italiana, possiamo constatare come molti frontman di quel periodo cercassero di ispirarsi a lui o a Ian McCulloch degli Echo & the Bunnymen. Crediamo, invece, che in Miro Sassolini non ci fosse questa sorta di tentativo d’imitazione, il suo era un timbro originale, baritonale, quasi lirico, che ricorda forse più un David Bowie degli inizi, ma che aveva una sua identità ben precisa.

FF: Sicuramente, Miro aveva una sua originalità e non possiamo dire che imitasse qualcuno.

FR: Cosa vede Federico Fiumani, nel suo futuro?

FF: Ho 58 anni e ormai la mia vita è andata, ho fatto quello che volevo, con grande tenacia e passione e con discreti risultati. So fare solo questo, quindi, in futuro, farò sempre questo, perché è l’unica cosa che mi riesce bene, ovvero scrivere canzoni e produrle, andare in giro a suonare. Questo è il mio mestiere.

FR: Non hai mai ceduto alle proposte più commerciali che ti venivano offerte?

FF: No, perché ho sempre fatto musica per divertirmi. Quando capivo al volo che un progetto non mi avrebbe divertito, lo lasciavo perdere. Se avessi accettato, può darsi che mi si sarebbero aperte diverse porte, ma non era il mio ambiente, non mi piacevano le persone che ci lavoravano o le dinamiche che soggiacevano a quel mercato, perciò ho preferito continuare, nel mio piccolo, a fare solo ciò che mi piaceva, con lo scopo di divertirmi. Se arrivava anche un riscontro economico era ovviamente ben gradito, ma si andava comunque avanti per altri motivi.

FR: Grazie mille Federico e in bocca al lupo per il tour.

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